di Maria Cristina Poponcini

Stasera stranamente mi sono appassionata ad approfondire una notizia di economia/finanza/politica. A dire il vero forse è un po’ attinente alla Storia, argomento che in genere mi prende di più, in particolare direi al Sacco di Roma. 

Mentre Salvini esulta per Le Pen, Meloni scrive letterine ai dirigenti, Shlein e Conte saltano da un palco Pride a uno ANPI, si conclude nel silenzio indifferente dei media l’affare Telecom – KKR, in pentola ormai dai tempi del governo 5 stelle, cotto a puntino da quello Draghi e servito da quello Meloni. La par condicio è salva. 

Qualcuno che ha alzato sommessamente la voce ha puntato genericamente il dito sulla vendita agli stranieri di asset strategici (KKR è un fondo americano). Storia vecchia questa e ormai intempestiva: non è questo il problema dato che che TIM di italiano aveva ben poco da anni. 

Il vero problema è il come. I 22 miliardi annunciati sono finti. I soldi veri li metteranno per lo più le banche e lo Stato, le garanzie la Telecom stessa con la propria rete. Rete che, evidentemente, se si chiama Telecom non vale niente, ma a stelle e strisce diventa asset in grado di garantire prestiti. Ovviamente Tim svuotata di tutto pagherà un canone come una Ho qualsiasi per l’utilizzo della rete che non possederà più.

Si chiama Leveraged buyout ed è un favoloso artificio della finanza. In pratica compri aziende senza tirar fuori quattrini, anzi ti ritrovi quelli dei creditori. Il bello è che puoi ristrutturarle, dismetterne pezzi, mandare i dipendenti a casa e rivenderle  anche a pezzi, insomma puoi fare quel che ti pare. Vedere la storia della Marelli quale primo shopping italiano di questi signori. 

La storia di KKR, per inciso, è raccontata in un libro americano che si chiama Barbaricians at the gate, ma noi italiani evidentemente ci portiamo avanti e le porte le abbiamo belle aperte, tanto che  dopo che ci hanno smantellato la Marelli pareva brutto non dargli anche la Telecom. 

FINE

 (era meglio se ero andata in palestra)