Si sono attenuati i fuochi artificiali post elettorali e si dà corso alle faide. Si alzano le difese dei fortilizi e si mettono in moto i mezzi d’assedio.

Mentre la prevedibile pioggia di dardi antifascisti si dirige verso la piccola donna che da ogni social bècera in spagnolo concetti imbarazzanti, anche gli altri recitano la loro parte.

Perché qui fanno tutti finta.

La finta più grossa è che ci siano vincitori e vinti, destra e sinistra, giustizialisti e garantisti.

C’è più semplicemente  un pubblico che ha voltato le spalle alla compagnia di giro, disertando il voto.

Pochi elettori alle comunali, pochissimi per i referendum.

C’è una sconfessione massiccia della rappresentazione e degli attori.

La partecipazione è stata così modesta come  neanche accadeva nelle elezioni a esito obbligato nei comuni a trazione mafiosa di una Sicilia tuttosommato meno ipocrita della realtà odierna.

Quanto meno fuori luogo  appare il trionfalismo  del segretario del partito postcomunista che si autoincensa come il ” primo partito”.

Ricorda Hastings, condottiero normanno che mentre espugnava Luni, cittadina nella piana del Magra  era convinto di aver conquistato Roma, caput mundi, nella piana del Tevere.

Come appaiono irreali  le dichiarazioni del leader di un minicentro, iperdimensionato soltanto nei sogni dei sostenitori.

Centro che a conti fatti, avrebbe un consenso in assoluto pari allo 0, 3/0, 5 %.

Neppure la neobombardata piccola signora, sfugge alla recita.

Di fronte alla Waterloo generale, senza neppure aver conseguito risultati eclatanti per il suo partito ove presente in solitaria, si autoproclama leader di una coalizione che in realtà non esiste da tempo.

Roba in disfacimento naturale, dove ognuno va per suo conto e in direzioni opposte.

Pare che non si colga il cuore del problema: a questi partiti credono in pochissimi. Di questi leader, portatori di significativi fallimenti o predicatori di velleità oniriche non si fida più nessuno o quasi.

Dove le cose sono andate meno a picco si è disvelato un fenomeno, peraltro positivo del periodo post94.

Sindaci bravi e stimati, con le loro liste hanno fatto il pieno fra i superstiti del voto, limitando l’emorragia, ma evidenziando la crisi irreversibile dei partiti sulla scena.

Riprova a posteriori che quello che fu il partito dei sindaci si presentava come la migliore alternativa possibile.

Non fu dunque un caso se quella scelta fu castrata sul nascere togliendo loro l’autonomia finanziaria di cui godevano ( 80/90% di risorse proprie).

Da una parte si riformava la Costituzione in senso autonomista e dall’altra si chiudevano i rubinetti.

Prevalse  lo spirito di conservazione e autoreferenziale di quella classe dirigente tanto inadeguata da aver ceduto il passo a questa che oggi ci sta portando agli inferi.

Il fiasco dei referendum non dovrebbe far gioire i seguaci di questa giustizia gestita da una magistratura arroccata e autoreferente.

Dice in chiaro che la disaffezione e la condanna di un sistema sono corroborati da altri elementi.

Fra i quali la constatazione che le decisioni referendarie sono state sistematicamente disattese e aggirate. Partecipare più che inutile potrebbe significare sottoporsi a una nuova presa di giro.

La riforma della giustizia compete a azioni costruttive del Parlamento non a cassazioni iniziatiche dei quesiti referendari.

Nè è lecito  sostenere la cd riforma Cartabia e starsene al governo, delegando ai referendum le responsabilità eluse.

Non si può fare allo stesso tempo gli uomini di corte nel Palazzo e i Masaniello in strada.

Nè la mattina i Torquemada e dopo pranzo  i Cesare Beccaria.

Nè si può votare l’eliminazione della prescrizione e poi reclamare una giustizia giusta nel nome di Enzo Tortora.

Dio non paga il sabato, nè i cittadini pagano a tutte le elezioni.

Ma a qualcuna, ogni tanto sì.