Nell’ultimo incontro con i presidenti delle Camere, Mattarella ha riproposto l’annosa questione dei troppi decreti presentati dal governo ai quali, durante l’iter parlamentare, vengono poi agganciati emendamenti con misure del tutto estranee alla materia trattata. Nella storia del Parlamento questa pessima consuetudine è diventata prassi per assecondare le esigenze dei governi e tenere buone le maggioranze, con qualche contentino anche alle opposizioni. Mattarella aveva già manifestato la sua preoccupazione promulgando il Milleproroghe, decreto per sua natura “omnibus”.
Questa querelle istituzionale riporta alla luce il problema del bilanciamento dei rapporti tra governo e Parlamento, un’antica questione irrisolta fino dai tempi dell’Assemblea Costituente, che partorì il compromesso di un sistema di “governo debole” in modo che nessuno potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere del tutto escluso dalla gestione del Paese. Il risultato, nella prima Repubblica, fu quello di produrre frequenti crisi di governo in un quadro di sostanziale stabilità politica, in linea con la scelta del bicameralismo perfetto e col timore diffuso che un eccesso di potere all’esecutivo potesse di alimentare tentazioni autoritarie. A poco servì l’ordine del giorno Perassi, che propugnava sì la forma di governo parlamentare, ma prevedendo “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo” per evitare le “degenerazioni del parlamentarismo”.
Ora però è il Parlamento a pretendere una maggior tutela perché, tra decreti legge, questioni di fiducia sui maxiemendamenti e decisioni inappellabili della Ragioneria dello Stato, le Camere hanno margini sempre più ristretti per esercitare la loro funzione, essendosi instaurata una sorta di monocameralismo surrettizio per cui i decreti vengono discussi in una sola Camera, mentre l’altra è chiamata ad approvarli a scatola chiusa.
Si è oscillati dunque tra il trionfo dell’assemblearismo e le esigenze dei governi che non possono fungere da mero comitato esecutivo in balia degli umori parlamentari, ma essere un vero e proprio comitato direttivo della maggioranza. Il premier, che in un sistema bipolare è solitamente il leader della coalizione vincente, deve a sua volta essere il garante dell’indirizzo politico di fronte al Parlamento, ma anche allo stesso corpo elettorale, che però per dieci anni ha sempre dovuto assistere alla formazione di maggioranze spurie, figlie di compromessi tra partiti spesso avversi. Una situazione perfettamente compatibile con i canoni della democrazia parlamentare, ma comunque eccentrica rispetto alla Costituzione materiale invalsa nella seconda Repubblica, che ci aveva abituati a conoscere la sera stessa delle elezioni il presidente del consiglio, riducendo a pura formalità le consultazioni al Quirinale.

C’è stata insomma una combinazione di fattori storici e politici che ha prodotto governi e Parlamenti entrambi deboli, per cui la governabilità del Paese è stata compromessa dall’eccessivo rallentamento della produzione legislativa. Da qui l’eccesso della decretazione d’urgenza, una consuetudine deprecata a intermittenza dall’opposizione di turno. Una deriva che il taglio dei parlamentari, senza un’adeguata revisione dei regolamenti, ha ulteriormente aggravato. E’ evidente che fino a quando non sarà modificata la Costituzione, il rapporto tra governo e Parlamento resterà confinato in questo equilibrio instabile, ma alcuni punti fermi dovrebbero essere chiari a tutti, a partire dalla necessità di rafforzare i poteri del premier, che ora è solo un primus inter pares, e dal principio generale che vede un esplicito favor regolamentare per l’attività del governo in Parlamento, al quale resta sempre e comunque la facoltà di revocargli la fiducia. Finora, tutti i tentativi di irrobustire la forma di governo parlamentare si sono arenati nelle secche delle Bicamerali fallite, e non si è mai trovata una via d’uscita alla questione che i padri costituenti lasciarono irrisolta. Ma proprio il monito di Mattarella sull’anomalia dei troppi decreti ha messo il dito nella piaga di un sistema che va cambiato, o col presidenzialismo o col premierato. Altrimenti tutto resterà immutabile, compresi i moniti inascoltati del Quirinale.