Parecchio tempo fa, verso la fine degli anni ’70, Roberto Benigni nei suoi spettacoli in giro per l’Italia si occupava spesso anche di politica estera, e riservava quasi sempre una battuta alla disputa israelo-palestinese perché tutti i giorni il telegiornale diceva: “Guerra in Medio Oriente!”, e quindi lui diceva di voler recarsi in loco, prendere da una parte Arafat e Begin e domandargli, detto alla pratese: “Icché c’è?!”, per conoscere una volta per tutte il perché di questa guerra infinita. Ebbene, Benigni ha già compiuto settant’anni ma siamo sempre al punto di partenza, nonostante gli accordi di Camp David e quello, considerato ancora più storico, di Oslo tra Israele e Olp. La questione palestinese resta dunque un perenne focolaio di tensioni e un enigma irrisolto dalla comunità internazionale, oltre che uno spartiacque ideologico all’interno delle democrazie occidentali fino da quando, nel 1947, l’Assemblea generale dell’Onu approvò la risoluzione 181sulla Palestina indicando la strada da percorrere: due Stati sulla stessa terra, l’uno ebraico (che avrebbe coperto il 55% della zona e ospitato anche 400mila palestinesi) e l’altro arabo (meno esteso, ma quasi integralmente musulmano), con Gerusalemme sotto controllo internazionale. I leader ebrei accettarono subito, i palestinesi no. Così quando il 14 maggio del 1948, prima del ritiro britannico, fu dichiarata l’indipendenza dello Stato di Israele con l’assenso di Usa e Urss, scoppiò la prima guerra. Gli Stati confinanti della Lega Araba, che consideravano il sionismo un’ingerenza straniera, attaccarono Israele, che a sua volta contrattaccò. Questa è la storia dell’origine della questione palestinese e un’esperta di vicende israeliane come Fiamma Nirenstein non ha dubbi: il punto del conflitto non è mai stata la terra, ma il rifiuto della legittimazione di Israele. Non solo: il diritto ai “territori” è inventato perché la risoluzione dell’Onu dopo la guerra dei Sei giorni parlava di “territori” e non “dei territori”, in funzione proprio della sicurezza di Israele. Dunque non sono mai esistiti “territori palestinesi”, né sono mai stati “illegalmente occupati”, perché Giudea e Samaria spettavano a Israele, e fu semmai la Giordania ad occuparli illegalmente nel 1948. Una ricostruzione ferocemente confutata dal variegato fronte anti israeliano, ma molto vicina alla realtà. Poi nel ’67 Israele, attaccato da Egitto, Iraq, Siria e Giordania vinse e conquistò la Cisgiordania.
Ma quello che i fiancheggiatori a oltranza della causa palestinese omettono sempre di ricordare è il “Settembre Nero” del 1970, quando il governo giordano cacciò il movimento di resistenza palestinese dal Paese costringendo i fedayyin a rifugiarsi in Libano e in Siria. Insomma: i palestinesi furono prima cacciati dalla loro patria naturale e, dopo la diaspora, utilizzati dal fronte arabo per destabilizzare Israele.
A nulla servì neppure la decisione di Sharon, nell’estate del 2005, di ordinare il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza sfidando mezzo governo e il suo stesso partito, col conseguente smantellamento di tutti gli insediamenti israeliani:furono sgomberati diecimila coloni ebrei, alcuni con la forza, e la Striscia fu consegnata all’Autorita’ nazionale palestinese, ma un anno dopo Hamas vinse le elezioni trasformando Gaza in un’enorme base militare. Ripassare la storia è sempre utile davanti all’odio ideologico che imperversa contro Israele, sempre sotto accusa per le sue “reazioni sproporzionate”, mentre si è sempre chiuso un occhio sugli attacchi di Hamas e sulla sua negazione di qualsivoglia possibilità di dialogo con uno Stato che non ha diritto di esistere. Ora Hamas incarna il volto peggiore dell’Islam, taglia la gola ai neonati, usa la sua popolazione come una povera massa di ostaggi, ma ebbro di popolarità è pronto a sacrificare ancora una volta il suo territorio e la sua gente per dimostrare all’Iran che i soldi per rifornire Gaza di armi sono spesi bene. Tanto peggio, tanto meglio, sulla pelle di due popoli.