Era la notte di venerdì 17 giugno, quarant’anni fa, quando Enzo Tortora fu arrestato dai carabinieri nella sua stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, su ordine della procura di Napoli, con le infamanti imputazioni di traffico di stupefacenti e di affiliazione alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Gran parte della stampa e dell’opinione pubblica si scagliò contro di lui con una ferocia pari solo all’inconsistenza di un quadro accusatorio basato solo sulle calunnie senza fondamento di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Pasquale Barra detto ‘o animale, lo stilnovista che prima di fingere di pentirsi uccise con decine di coltellate Francis Turatello profanandone anche il cadavere. I magistrati non avevano in mano alcun riscontro oggettivo: solo un nome letto male – c’era scritto Enzo Tortona – appuntato sull’agenda telefonica di un camorrista. Sarebbe bastato quel semplice riscontro per far crollare come un castello di carte tutto l’impianto accusatorio, invece i pm organizzarono un arresto spettacolare, con la vittima in manette davanti alle telecamere, e dopo il primo interrogatorio era già chiaro che avevano preso un granchio colossale, ma invece di ammetterlo e chiedere scusa continuarono pervicacemente a indagare alla ricerca di prove introvabili perché inesistenti.

Nessuno di quei magistrati ha mai pagato per quell’errore giudiziario viziato da un’evidente mania di protagonismo: anzi, fecero tutti carriera, e lo Stato italiano non ha imparato nulla da quella terribile vicenda, perché oggi come allora il magistrato che sbaglia non paga mai, protetto da uno spirito di casta che ha sempre calpestato la giustizia.

Tortora alla fine fu assolto, ma quel calvario giudiziario lo condannò a una morte prematura: “Provate a mettervi nei panni di un uomo innocente che nel cuore della notte viene arrestato e trasformato pubblicamente in un mostro – ha scritto Emma Bonino, che con Pannella si schierò subito dalla parte di Tortora -, provate a immaginare la solitudine, la rabbia, la frustrazione, il senso di smarrimento per i propri cari, i colleghi, gli amici.

I più giovani non ricordano l’arresto del 17 giugno 1983 di Enzo Tortora, di quel celebre conduttore televisivo che da ‘uomo perbene’ divenne ‘camorrista’ per un errore giudiziario. Dopo mesi di galera, di sofferenza, e dopo una battaglia politica con noi radicali, Tortora ebbe il riconoscimento della sua innocenza ma l’atteggiamento colpevolista e giustizialista che lo colpì e che ancora oggi ha grande diffusione dimostra che siamo molto lontani da una concezione di giustizia giusta.

Dopo 40 anni siamo ancora qui, a spiegare che senza una giustizia davvero giusta non c’è libertà”.
Parole di verità e di giustizia, eppure la riforma Nordio, appena avviata, ha già suscitato la ribellione del fronte giacobino, ossia del circuito mediatico-politico-giudiziario protagonista della lunga stagione della gogna e del principio di colpevolezza come fondamento di una Repubblica giudiziaria.
La questione giustizia incide sulla carne viva del Paese, sulla libertà dei cittadini e sulla stessa qualità della democrazia: è arrivato il momento di riportarla nell’alveo costituzionale, con un radicale cambiamento del nostro sistema penale e col superamento dei suoi mali congeniti, dalla lentezza dei processi all’abuso della custodia cautelare, dal protagonismo delle Procure al mercimonio di carriere decise dalle correnti, fino alle decapitazioni politiche per via giudiziaria. E’ stato l’esercizio anomalo del potere accusatorio, accompagnato dalla grancassa mediatica su maxi-inchieste troppo spesso finite nel nulla, a far precipitare la credibilità della magistratura, e il caso Tortora rimane, quarant’anni dopo, una mia sanata vergogna di Stato.