Il Pd ha cambiato idea su presidenzialismo e premierato forte, e non è uno scandalo né una novità, visto che il “contrordine compagni” è stato un tratto caratteristico della sinistra fino dai tempi gloriosi del Pci.
Ma dimostra una forte miopia politica quando sostiene che il cantiere delle riforme non una priorità per il Paese. In realtà, l’instabilità dei governi è da tempo un’emergenza di sistema, una deriva che aveva lucidamente previsto Piero Calamandrei alla Costituente: “…Credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto della Costituzione…? Il governo parlamentare è un vecchio sistema che ha avuto sempre come presupposto l’esistenza di una maggioranza omogenea, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente…”. Ma se si dovrà andare avanti con governi di coalizione, “allora bisognerà cercare strumenti costituzionali che corrispondano a questo diverso presupposto… Per questo noi avevamo sostenuto qualche cosa che assomigliasse ad una Repubblica presidenziale o perlomeno a un governo presidenziale… Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè la stabilità del governo, nel progetto non c’è quasi nulla”.
E’ lo stesso concetto richiamato recentemente dal presidente Pera, di una Costituzione “presbite” nella sua prima parte ma “miope” nella seconda, quella sull’ordinamento della Repubblica. Ed è il succo del ragionamento preliminare che la premier ha fatto alle opposizioni: il nostro è un sistema caratterizzato da una fortissima instabilità, paradossalmente peggiorata nella seconda Repubblica, solo che nella prima – grazie o a causa della conventio ad excludendum – la maggioranza restava sempre la stessa, mentre poi ai repentini cambi di governo sono coincisi anche repentini cambi di maggioranza. Un’instabilità al quadrato, insomma, che è alla base di molte criticità e indebolisce l’Italia anche fuori dai confini, visto che ai summit internazionali il premier di turno viene sempre considerato un interlocutore provvisorio. Negli ultimi venti anni noi abbiamo avuto dodici governi, la Francia quattro presidenti e la Germania tre cancellieri. Questo ci ha sempre impedito di pianificare strategie di lungo periodo. Non a caso nello stesso periodo l’Italia è cresciuta molto meno di Francia e Germania. Ergo: c’è qualcosa che non funziona alla base del sistema, e questa è la ragione per cui le riforme istituzionali non sono né un’arma di distrazione di massa né una ripicca politica della destra, ma una priorità.
L’altra patologia che da anni ha allargato il solco tra Paese reale e istituzioni è la disaffezione dei cittadini alla politica, un vulnus che le riforme dovrebbero sanare, restituendo agli elettori la certezza smarrita che il loro voto ha un peso specifico e non finisce in un calderone indistinto dove viene utilizzato trasformisticamente per dinamiche e visioni politiche molto distanti da chi l’ha espresso. Restituire stabilità ai governi significa anche interrompere la spirale che ha portato a ripetuti commissariamenti della politica – con Dini, Monti e Draghi – e a coalizioni spurie come quelle che hanno retto prima l’esecutivo Letta e poi i due di Conte. Va dunque assicurato un collegamento il più possibile diretto fra le indicazioni di voto e il governo che nasce, con meccanismi che ne garantiscano la stabilità. E’ quanto auspicava Calamandrei parlando di “Repubblica presidenziale” o di “governo presidenziale”, e non è un’eresia che la sua lezione ora venga messa a frutto dal centrodestra.