Greta Thunberg ha ballato nelle strade di Milano sulle note di “Bella ciao”, riportavano con risalto le agenzie di stampa, specificando che la pasionaria svedese e altri giovani “erano seduti in cerchio per terra”. Ecco: mancava solo la Greta partigiana per raggiungere il culmine di un vero e proprio culto della personalità nei confronti della ragazzina svedese divenuta, grazie a una formidabile operazione di marketing, l’icona mondiale delle battaglie ambientaliste, implacabile accusatrice del “bla-bla-bla dei politici” che pure fanno la fila per omaggiarla. Mentre l’Europa è impegnata a portare avanti un problematico e avventuroso “Green Deal”, sul cui costo economico e sociale è in corso una preoccupata riflessione, il sindaco uscente Sala si è affrettato a dichiarare che la transizione ecologica “porterà lavoro”, un ottimismo suffragato da una considerazione inattaccabile: “Lo dice anche Greta…”. Il cui Verbo da Cassandra ormai è una delle nuove frontiere del progressismo internazionale, e non solo: basti ricordare che prima delle elezioni europee, due anni fa, il Papa le concesse udienza alla pari di un capo di Stato.
Il gretismo in questi anni è stato un fenomeno carsico che, dopo essere riuscito a mobilitare i giovani di tutto il mondo, è caduto in letargo per mesi, salvo poi tornare di prepotenza sulla scena mondiale in nome di un catastrofismo climatico e di un approccio assolutista ai temi ambientali che ricalca i canoni della prima grande rivolta nata prima del buco dell’ozono. Ma oggi una coscienza ecologista credibile dovrebbe avere un minimo senso del limite, requisito che evidentemente manca a questo movimento giovanile che si propone di salvare il mondo dagli effetti dei cambiamenti climatici: obiettivo più che nobile, ma il problema è talmente complesso da non poter essere risolto né con gli slogan, né indicando obiettivi difficilmente realizzabili, come quello di contenere l’aumento medio della temperatura entro 1,5 gradi, perché nessuno è in grado di sapere ora quale sarà la temperatura tra mezzo secolo, né quantificare l’effetto della nostra evoluzione. Anche perché fior di scienziati negano, dati storici alla mano, che ci sia davvero una relazione ci causa-effetto tra le attività dell’uomo e il riscaldamento globale, e quindi sostenere che siamo solo noi i responsabili dei cambiamenti climatici “è scientificamente infondato”. Anche perché la temperatura media globale, dall’inizio dell’Ottocento a oggi, è cresciuta ogni secolo di un decimo di grado, anche molto prima dunque dell’aumento esponenziale delle emissioni nocive.

Questo non toglie che ridurre l’inquinamento sia un obiettivo ineludibile, ma la transizione energetica ha necessariamente tempi molto lunghi, e comporta costi che pesano su interessi consolidati rischiando di acuire le disuguaglianze sociali. E’ questa la grande sfida che hanno di fronte i governi occidentali: restare competitivi con il gigante cinese che da solo produce un terzo delle emissioni globali di carbonio, e dare risposte alle istanze ambientaliste che, soprattutto in Europa, stanno per diventare la nuova frontiera del populismo, che in nome di un neoluddismo ecologico rifiuta per principio il nucleare di nuova generazione, anche se verde e sicuro, come componente indispensabile della transizione energetica. Vedremo quale compromesso uscirà dal G20 di fine ottobre, che ha in agenda anche il tema del riscaldamento globale. Chissà se nel bla-bla-bla globale qualcuno oserà pragmaticamente dire “Greta ciao”.