La crisi sanitaria, economica e sociale determinata dal Coronavirus ha fatto esplodere tutte insieme le contraddizioni irrisolte del rapporto tra potere centrale e autonomie causate dalla riforma del Titolo V, voluta dalla sinistra e figlia dell’ubriacatura federalista di inizio secolo, che ha portato a un ventennio di contenziosi tra Stato e Regioni, sfociati in valanghe di ricorsi alla Corte Costituzionale. Il corposo trasferimento di competenze nella sanità ha determinato venti modelli diversi con l’unico denominatore comune dei tagli indiscriminati imposti dalle politiche restrittive dei governi nazionali. Ma se il sistema è arrivato nudo alla meta della pandemia, le responsabilità vanno comunque equamente divise: anche se il fronte sud si è distinto negativamente per gli sperperi clientelari, la medicina territoriale è stata ovunque depauperata, e oggi ne paghiamo le conseguenze. L’ultimo Dpcm, quello che ha diviso l’Italia in tre colori, è un esempio di scuola della confusione normativa, oltre che della debolezza politica del governo nazionale.
Pur nella sua complessa indeterminatezza, infatti, la pessima riforma del Titolo V un punto fermo lo mette all’articolo 117, secondo comma, lettera q, quando dice che la profilassi internazionale è di competenza esclusiva nazionale, e il Covid rientra a tutti gli effetti nella categoria dei flagelli internazionali, per cui dovrebbe essere chiaro che in questa emergenza le competenze regionali sono subordinate a quella dello Stato. Prerogativa che Conte, però, ha esercitato a fisarmonica, prima usando i pieni poteri con piglio autoritario, ma poi tentando di delegare le decisioni più scomode a governatori e sindaci quando i lockdown sono diventati impopolari. Ne è scaturito un braccio di ferro che ha ritardato le decisioni, tanto che fino all’ultimo momento nessuno sapeva quali regioni fossero in procinto di diventare zona rossa, e la sensazione finale è che alcune scelte siano state suggerite più da convenienze politiche – vedi il caso della Campania – che da probanti indicazioni scientifiche.
Dunque, una volta usciti dalla pandemia andrà fatta una seria riflessione sul ritorno della sanità nel suo complesso alle competenze dello Stato, perché la babele delle competenze ha superato ogni livello di guardia e di decenza. Come scrisse Manzoni: comanda chi può, ubbidisce chi vuole. Il paradosso è che questo avviene nonostante le forzature costituzionali di cui Conte si è reso protagonista in questi mesi, con la perla finale dell’ultimo Dpcm che all’articolo 2 attribuisce a un’ordinanza del ministro della Salute il potere di collocare una regione nella cosiddetta fascia rossa, in cui vige il lockdown totale con le connesse limitazioni alla libertà personale. Ora, la Costituzione stabilisce che ogni atto amministrativo deve trovare fondamento in una legge, ma da marzo a oggi abbiamo assistito a una catena di Dpcm e ora, addirittura, alle ordinanze del ministro della Salute “coperte” normativamente solo da un altro Dpcm del premier, il quale bypassa così in un solo colpo Parlamento, Quirinale e Consulta. Nel silenzio generale, è il lockdown della democrazia.