Entro in medias res. Non mi soffermo su “traditore”, “badogliano” o valutazioni sulla tenuta psicologica o su altre questioni più da gossip e censore di debolezze umane che soltanto a lui non si dovrebbero scusare. Appartengono all’armamentario di una destra un po’ approssimativa nei pensieri, manchevole nei fondamentali, ma decisa nell’uso delle ghigliottine e nella proclamazione delle damnatio. Fui finiano a un punto tale che mi capitava di anticipare posizioni poi da lui sostenute. Riccardo Migliori, con il suo impagabile humor, diceva “avete visto che ha detto i ‘Presidente? Ve lo dicevo che Fini l’è diventato bianconiano”. Battuta che strappava il sorriso anche a Altero Matteoli che non rideva mai, neanche per sbaglio.

Nel processo di ammodernamento, a Almirante siamo debitori della scelta del doppio salto generazionale. A Fini del cambio di linguaggio, di prospettive, di progetti. Anche se fosse stato una sorta di Forrest Gump della politica, come qualcuno ama ironizzare, il saldo non cambierebbe. Saldo che nessuno ha validamente capitalizzato se è incontroverso che l’odierna rappresentazione della destra parlamentare evoca nei temi, nel linguaggio, nell’animo profondo, più il Movimento Sociale Italiano, come risvegliatosi nuovo e lucido, privo dell’esperienza dell’epoca finiana e del Pdl. Tutto sommato un passo indietro rispetto all’occasione perduta per il vero puntum dolens di questa vicenda che ancora fa sanguinare me e forse molti altri.

Sia come sia, con tutti i compromessi che mai negli anni verdi avremmo pensato di fare, sia come sia con tutti gli errori, le manchevolezze di generali colonnelli caporali e truppa. Sia come sia anche con la mai troppo rimpianta mancanza di numi tutelari prematuramente scomparsi. Sia come sia con tutto il fuoco di sbarramento di quel poco di intellighenzia nostrana che anziché “lavorare per”, preferiva atteggiarsi a custode dei sacri valori o a sostenere che Berlusconi era il naturale leader e che An e Fini erano fotocopie mal riuscite. Sia come sia, per amore o per forza o per caso al grande partito di destra (per pudore detto di centrodestra) ci eravamo arrivati. Al governo del paese ci eravamo arrivati. Al vertice delle istituzioni ci eravamo arrivati. A un parlamento senza neppure un neo comunista ci eravamo arrivati.

Questa è la responsabilità politica di Fini: aver bruciato tutto, aver fatto prevalere l’ansia di scavalco. Aver pensato che chi lo sosteneva e incoraggiava tenesse alle sue, alle nostre sorti, a quelle del paese, anziché a ben altri scopi. A Fini, entrato di necessità presunta nel progetto Pdl, mancò la visione di quello che era stato costruito nonostante gli architetti. Sfuggì la grandezza dell’ipotesi politica di una destra di governo dove lui, noi e il nostro bagaglio prima o poi avremmo avuto la possibilità di realizzare quello per il quale avevamo speso una vita. Non ci credette, non vide.

Forse l’odio, l’insofferenza, le illusioni non gli fecero vedere. Nessuno di quelli che aveva intorno si mise di traverso. Lì morì il sogno di una destra di governo moderna e capace e ancora non si vedono all’orizzonte riscosse. Lo snodo ha qualcosa in comune con quanto rappresentò l’alleanza con Fanfani in occasione del referendum divorzile.

Lì fu un errore di strategia che mise la destra fuori dai giochi per una ventina d’anni. Qui fu l’aver dimenticato la grande lezione “Tre sono le qualità per il successo in politica: pazienza, pazienza, pazienza”. Tutto sarebbe venuto senza sforzo eccessivo al suo naturale sbocco, di lì a non molto. Questa è la vera responsabilità di Gianfranco Fini, che non lo cancella certo dalla wall of fame del nostro mondo, a volte ingeneroso e un po’ meschino.