Per fotografare lo stato della giustizia italiana e la sua credibilità basta affidarsi ai numeri, che non mentono mai quando non vengono manipolati. Il ministro Crosetto, rispondendo all’interpellanza sull’“opposizione giudiziaria”, ha detto che negli ultimi venti anni sono finiti nelle carceri italiane 30.778 innocenti, un’evidente enormità. Non basta: secondo un sondaggio di Pagnoncelli per il Corriere della sera un italiano su due non ha fiducia nella magistratura, anche questo un dato di enorme rilevanza se si pensa al ruolo cruciale che svolge il sistema giudiziario e al suo impatto sociale. La metà degli italiani, inoltre, ritiene che le toghe agiscano con finalità politiche, a dimostrazione di quanto sono ormai lontani i tempi in cui gran parte dell’opinione pubblica riteneva la magistratura come l’angelo vendicatore di tutte le ingiustizie del Paese. Ebbene, questi due fattori – il numero esorbitante di innocenti in manette e l’acclarata sfiducia degli italiani – dovrebbero essere sufficienti per comprendere che il sistema giudiziario non funziona, e che l’’irriformabilità della giustizia italiana è un macigno che investe la stessa qualità della vita democratica. Secondo i dati del Consiglio d’Europa la nostra giustizia è la più lenta d’Europa nei tre gradi di giudizio, e le relazioni annuali al Parlamento del garante nazionale delle persone private della libertà indicano che più di un terzo dei detenuti è ancora in attesa di giudizio. Non solo: ci sono sei milioni di cause pendenti, occorrono più di sette anni per concludere i processi civili, più di tre per quelli penali, oltre il 60 per cento dei procedimenti viene prescritto prima di arrivare in aula e nel frattempo la corporazione promuove il 99,7 per cento dei magistrati, tra cui anche quelli coinvolti negli errori giudiziari più clamorosi, con un esorbitante tasso di impunità.

E’ stato soprattutto l’esercizio anomalo del potere accusatorio, accompagnato dalla grancassa mediatica su maxi-inchieste troppo spesso finite nel nulla, a far precipitare la credibilità della magistratura. Quante volte i pm, trasformando l’obbligatorietà dell’azione penale in una sconfinata discrezionalità, sono riusciti a imporre il principio della presunzione di colpevolezza degli indagati, avviando inchieste che, formulato il giudizio di primo grado, sono poi cadute in appello o in Cassazione, ma solo dopo la rovina di vite e carriere? E’ crollato così il mito della magistratura infallibile alimentato dalla narrazione compiacente degli anni di Tangentopoli.

Ma per l’Anm, nonostante gli scandali, le faide e la degenerazione correntizia, la giustizia deve restare un santuario intoccabile, e qualsiasi riforma viene quindi demonizzata come un attentato all’indipendenza della magistratura, per cui il “fascicolo personale” diventa una forma di controllo politico e non un tentativo minimale di responsabilizzazione dell’attività professionale che eviti almeno di trasformare in titoli di merito tanti disastri processuali consumati sulla pelle dei cittadini. Quel dato (99,7%) delle valutazioni positive cozza drammaticamente con le statistiche sugli errori giudiziari e sulle ingiuste detenzioni, eppure dalla magistratura associata non è mai arrivata una pur minima autocritica, solo la difesa a oltranza dei privilegi di una corporazione che ormai intende l’indipendenza come totale impunità. Tanto, a pagare il costo degli errori giudiziari è solo e sempre lo Stato, che ogni anno spende decine di milioni di euro per le ingiuste detenzioni e per gli errori giudiziari. Un problema che si interseca con la lunghezza dei processi: gli indennizzi infatti arrivano quasi sempre dopo oltre dieci anni dall’ingiusta carcerazione subìta, quando viene emessa la sentenza definitiva che accerta l’innocenza dell’imputato, che nel frattempo però rimane esposto alla gogna, al pregiudizio e al sospetto. C’è poi la questione dell’abuso della carcerazione preventiva: non è un mistero che la misura cautelare sia stata troppo spesso utilizzata per obiettivi diversi da quelli per cui è ammessa, come mezzo di costruzione della prova, e la responsabilità dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai, in contrasto con quanto previsto dalla legge Pinto. La strada per uscire da questa situazione oggettiva è una sola: una vera riforma della giustizia per restituirle l’indispensabile credibilità, partendo dalla certezza dei tempi dei processi.