Il MoVimento Cinque Stelle è un indistinto magma post-ideologico in cui convivono simbologie visionarie, utopie post-industriali e semplificazioni difficili da irregimentare nella tradizionale dicotomia destra-sinistra. Per questo il grillismo, quando si è misurato con la prova del governo, ha subito fatto rima con trasformismo, dando vita a due esecutivi di opposto colore e Conte, che li ha guidati entrambi, ha potuto prima affermare che non rinnegava nulla di quanto fatto a Palazzo Chigi con la Lega e poi, uscendo dal Quirinale con in mano il secondo incarico, affermare senza alcun imbarazzo che quello che stava per nascere col Pd sarebbe stato “un governo nel segno della novità”. Una contraddizione palese, compatibile però con la natura stessa del MoVimento, ossia quella di una forza anti-sistema che si autocelebra come unica autentica espressione della volontà popolare, per cui ogni legame col sistema è solo una contaminazione tattica. Non a caso, i consensi sono andati a precipizio negli anni di governo di e sono invece ricresciuti col ritorno alla narrazione del “soli contro tutti”. E’ stato il Pd a legittimare questo ossimoro politico come una forza di sinistra, tentando di compiere, attraverso il governo rossogiallo, un’operazione speculare a quella riuscita a Salvini all’inizio della legislatura, con il travaso di consensi che aveva portato la Lega oltre il 30 per cento a discapito dell’alleato grillino. A questo scopo l’allora capo politico Di Maio era stato invitato al convegno “La nostra Europa, il nostro futuro” organizzato a Roma dai Dem e dal Pse, per aprire la strada all’ingresso del MoVimento nella famiglia del socialismo europeo e rafforzare l’obiettivo dell’alleanza strategica in costruzione in Italia. La svolta decisiva avvenne quando Zingaretti definì Conte come il punto di riferimento insostituibile dei progressisti italiani, e di conseguenza l’avvocato del popolo, per assumere la guida del MoVimento, pose a Grillo la condizione di un saldo e irreversibile ancoraggio alla sinistra. Una linea che Letta ha mantenuto pervicacemente fino alla caduta del governo Draghi ad opera dello stesso Conte, nonostante i campanelli d’allarme dei ripetuti fallimenti delle alleanze locali nelle tornate amministrative. Nel frattempo, l’auspicato travaso di voti non c’è stato. Anzi, il voto di ieri ha servito una nemesi beffarda: il Pd si è infatti accorto di aver maldestramente favorito, a forza di corteggiare il grillismo, un insidioso nemico nel suo stesso campo, e di aver trasformato Conte nel Melenchon italiano, un populista rosso ormai senza pochette che, vendendo il clientelismo del reddito di cittadinanza come agenda sociale, si è presentato in tutta la campagna elettorale come il leader della “vera sinistra”. Risultato: il Pd è rimasto sotto il 20 per cento e si ritrova per la prima volta un concorrente a sinistra di pari peso, col quale sarà difficile dialogare anche dall’opposizione. È l’ultimo capolavoro di una classe dirigente allo sbando e di un segretario pronto a tornare mestamente a Parigi.