Tra gli effetti collaterali della politica vi è quello di far perdere, a chi la pratica ad alti livelli, il contatto col mondo reale. Sembra quasi che il profumo del potere nell’incanto dei palazzi romani sia peggio di una droga, capace di anestetizzare le coscienze. Solo così si spiegano improvvide sortite di rappresentanti delle istituzioni, non ultima una viceministro che, sulla scia delle brioches di Maria Antonietta, ha invitato i ristoratori strozzati dalle tasse a smettere di lamentarsi e a cambiare mestiere. Ma questa non è che la punta dell’iceberg di un vizio atavico dello Stato che da sempre dimostra una profonda ostilità nei confronti della libera impresa comportandosi come un vero e proprio tiranno sotto mentite spoglie. Manifestazioni tangibili sono l’ipertrofia legislativa, il pelago della burocrazia, l’assolutismo fiscale con un apparato pubblico che drena il 70% del prodotto del comparto privato, una giustizia che (prendendo a prestito le parole di Cèline in un suo celebre romanzo) è simile a un “grande luna park del dolore”.  La questione però va affrontata in nuce cercando di agire sulle cause più che sugli effetti: non serve un’altra buona legge ma prendere di petto la questione cruciale della centralità della società civile uscita penalizzata dal ventesimo secolo che ci ha consegnato un Occidente dove, appunto, più della metà della ricchezza viene legalmente sottratta a quanti la producono. Non è un caso se le grandi rivoluzioni della storia sono nate a causa di oppressioni fiscali per mano di uomini che rivendicavano la centralità della libertà che non sta scritta in qualche costituzione o codice ma nelle corde profonde dell’uomo. Sarebbe da ricordarlo a quanti vorrebbero far coincidere la morale con la legge e la giustizia con le decisioni dei Parlamenti. L’atteggiamento ostile dello Stato che si fa Leviatano nei confronti della libera impresa, del risparmio, dell’individuo passa dalla propensione al grande capitale, alla finanza, a un sistema bancario che, anziché svolgere il compito per cui nacque nello splendore del 1200/1300 di raccolta del risparmio e concessione del credito, finisce per diventare il nodo scorsoio intorno al collo di chi vi ricorre. Il tutto, poi, si riverbera anche sui rapporti sociali inquinati dall’invidia verso chi ha di più, la demonizzazione della ricchezza, l’avversione nei confronti profitto. Questo sentimento nel giro di alcuni decenni ha frantumato il ceto medio, ridotto l’alveare di piccole e medie imprese alla categoria dei nuovi poveri, condannato al bisogno il mondo delle professioni. È anche l’odio, sul quale le classi dirigenti nostrane hanno soffiato sapientemente, il fil rouge che ha condotto il sistema economico italiano sul baratro, l’odio di chi non ama il rischio, di chi si accontenta di redditi sicuri e crede che guadagnare più del normale sia il male assoluto. A questo ha fatto il pari lo Stato con il suo esercito di funzionari, dirigenti, regolatori. Possiamo concludere con Luigi Einaudi che nel suo celebre Elogio del profitto diceva: “Si può immaginare una società in cui nessuno corra rischi; in cui siano aboliti professionisti liberi, artigiani indipendenti, imprenditori in cerca di profitto. Abbiamo in tempi moderni conosciuta quella società, ed essa ha posseduto e possiede una ideologia. Gli uomini si sono chiamati Mussolini, Hitler, Stalin.