Il Quirinale rompe il silenzio sulla vicenda magistrati (caso Palamara). Nella sostanza si sostiene di non avere i poteri per fare qualcosa di concreto (scioglimento Csm, provvedimenti disciplinari). Si esprime la riprovazione per l’accaduto, l’auspicio di una riforma del CSM che spetta “a governo e parlamento”.

Si sostiene che non vi sono gli estremi per un messaggio alle Camere. La nota fa seguito ad un lungo e criticato silenzio e si connota per l’interpretazione restrittiva delle facoltà che la Costituzione pone in testa al presidente e segna a carboncino limiti invalicabili nell’esercizio delle facoltà e dei poteri presidenziali.

Non posso sciogliere il csm, non posso prendere provvedimenti disciplinari, non posso avvalermi di un messaggio alle Camere. Quello che potevo fare l’ho già fatto e anche le critiche le ho fatte nelle sedi proprie. In sintesi il presidente non ha colpe. La nota è coerente con certa cultura buroimpiegatizia in voga nella pubblica amministrazione e su alcuni suoi punti fondanti: primo “io non c’entro”, secondo ‘”non ho colpe”, terzo “non cercatemi per le soluzioni che sono di competenza di un altro ufficio”. Si aggiunge a corollario, mentre si accompagna il cittadino alla porta: “Queste cose non mi piacciono, lo capisco, mi dispiace, ma non ci posso fare niente”.

Il cittadino assorbe la lezione di diritto, ringrazia, chiede scusa, esce e prova a bussare ad un altro ufficio. È il destino degli italiani confrontarsi con le istituzioni e trovarsi di fronte non chi risolve il problema ma chi pensa a salvaguardare la propria posizione, a rifuggire da responsabilità e da compiti impegnativi. I cittadini avvezzi a andare da Erode a Pilato, senza costrutto alcuno, ma timorosi di guai peggiori, non osano dirsi delusi, i media, secondo una non lodevole tradizione si dichiarano ‘soddisfatti’. Nessuno che rammenti che non sempre ci si è attenuti ai limiti enunciati. Non si pone mente per esempio a quando in esorbitanza rispetto all’interpretazione restrittiva, ci si mise di traverso e si impedì ad un presidente del Consiglio di indicare un certo personaggio a un determinato ministero, instaurando un braccio di ferro tutto politico e muscolare, fuori da schemi riduttivi (ma forse anche estensivi) delle prerogative. L’esempio è eclatante, fece rumore in Europa, pare conclusivo e non meritevole di aggiunte.

Esiste fra le facoltà assegnate al presidente dalla Costituzione materiale quella che con vezzo esterofilo viene definita la “moral suasion”, esercitata dal presidente con continuità’, ma non menzionata nella nota. Fatto è che la magistratura sta affogando in una crisi che sembra irreversibile, consumata da lotte di correnti, sistemi spartitori che evocano la peggior stagione della partitocrazia correntizia e clientelare.

Il sistema giudiziario è malato, con una crisi di credibilità’ senza precedenti. Sembra che per colui che è capo dello Stato, che rappresenta la nazione e ne garantisce l’unità e che e ‘anche il custode del buon andamento della giustizia e dell’eticità dei magistrati presiedendo l’organo di autogoverno, dire dopo il discusso silenzio,”son cose che non si fanno e mi dispiace ma io non c’entro”, sia insufficiente.

È l’ulteriore riprova che la carica appare inutile, superata, forse dannosa, sicuramente da abolire al piu’ presto