C’è stato un tempo in cui i direttori delle tre grandi testate italiane ogni sera facevano un briefing telefonico per concordare cosa mettere in prima pagina, e perfino come impostare il titolo di apertura, tanto che il mattino successivo uscivano praticamente giornali-fotocopia che assecondavano le peggiori pulsioni di un’opinione pubblica assetata di sangue giacobino, che faceva la fila alle edicole come le tricoteuses davanti alla ghigliottina nel periodo del Terrore della Rivoluzione francese. In Italia era in corso un’altra rivoluzione, quella giudiziaria, e i cronisti assiepati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano – salvo rarissime eccezioni – si erano ridotti ad acritico ufficio stampa della Procura. Unica eccezione: la sera in cui il Corriere della Sera ebbe in solitario la soffiata dell’avviso di garanzia a Berlusconi, che da presidente del consiglio stava presiedendo un vertice internazionale contro la criminalità. Uno scoop in grande stile, la prima picconata per abbattere il governo di centrodestra insediato da pochi mesi. In quell’epoca buia furono poche le voci che si levarono per denunciare quella deriva conformista appiattita sul Verbo dei magistrati, e va ricordato il coraggio di Marco Pannella e di Radio Radicale, che con “Stampa e regime” ogni giorno segnalò inascoltata quel trust disinformativo che mise in moto la micidiale macchina mediatico-giudiziaria con cui si sarebbero ingiustamente stroncate carriere politiche ed esistenze umane finite in tragedia.

Questo triste amarcord ci è stato suggerito dalla lettura dei giornali di ieri, visto che la cosiddetta grande stampa, con un ampio corollario di testate regionali, oltre che del quotidiano delle procure e di quello dei vescovi, non ha messo in prima pagina nemmeno una riga, nemmeno uno strillo, nemmeno un accenno insomma a un fatto non propriamente marginale: la richiesta di assoluzione di Salvini dall’accusa di sequestro di persona per la vicenda della nave Gregoretti. Eppure la notizia c’era tutta, perché è stata la stessa pubblica accusa a riconoscere che quella dell’allora ministro dell’Interno era stata una legittima scelta politica, condivisa da tutto il governo, e che non poteva essere considerato un reato aver ritardato lo sbarco in attesa che dall’Europa arrivasse un segnale per la distribuzione dei migranti. Non solo: dopo l’intercettazione in cui Palamara rispondeva alle perplessità del procuratore capo di Viterbo ammettendo che sì, Salvini non aveva sbagliato, ma che bisognava comunque attaccarlo, la richiesta di non luogo a procedere da parte del pm di Catania è stata la conferma indiretta che il procedimento contro Salvini aveva una matrice più politica che giudiziaria.

Per carità, ognuno è libero di impostare la gerarchia delle notizie secondo i suoi convincimenti, ci mancherebbe altro. Ma il caso Salvini ha campeggiato per mesi su tutte le prime pagine con tanto di commenti politici e di disquisizioni giuridiche per spiegare ai lettori che il reato c’era tutto e che Conte, Di Maio e Toninelli ne erano rimasti all’oscuro. Ora che il pm ha smontato dettagliatamente tutto il castello accusatorio, la notizia si è improvvisamente sgonfiata, sopravanzata da altre molto più importanti, come ad esempio il progetto di Bettini per il Pd, l’annuncio di Conte di voler essere eletto dalla base grillina, e perfino Martina Colombari e Billy Costacurta che vanno dallo psicologo per superare il trauma del lockdown.

I grandi direttori non si sentono più, ma l’inveterato vizio di sbattere l’indagato in prima pagina e di relegarlo invece in un trafiletto quando viene assolto è un lascito di Tangentopoli duro a morire, specie quando in causa c’è un politico di centrodestra.