I dubbi sulla soluzione Draghi come cerotto miracoloso sui fallimenti della politica sono più che legittimi, ma il responso su quale sarà il futuro che aspetta questa tribolata Repubblica c’è lo daranno i prossimi mesi e poi l, in fin dei conti, la storia. L’unica cosa certa è che da martedì sera, con il licenziamento in tronco dell’avvocato del popolo, siamo entrati in un altro mondo, come dimostrano le facce stupite e intristite dei fenomeni da talk show, emuli televisivi del Pianto quotidiano. Lo spettacolo da fine impero andato in scena nelle ultime settimane tra Palazzo Chigi e Montecitorio, tra improbabili mercanteggiamenti e tavoli espolorativi improvvisati, è stato il classico autodafè di una maggioranza che ha portato alla deriva il Paese. Lasciatemelo dire: è stato un sollievo vedere spazzati via in un colpo solo gli europeisti sudamericani, la pattuglietta di transfughi giunta nuda alla meta, ministri “socialisti” in pectore diventati ex prima ancora dell’incarico oltre all’intera squadra di governo in cui spiccavano le Azzolina, le Catalfo e il Guardasigilli dei pm Bonafede, in odore addirittura di vicepremierato. Politicamente, insomma, questa crisi ha lasciato sul campo una moltitudine di morti e feriti con una vittima eccellente: il Pd, che dopo dieci anni di potere quasi assoluto come partito delle istituzioni, ora si ritrova con un pugno di mosche in mano: l’alleanza strategica con i Cinque Stelle è in bilico, come il disegno di eleggere per la terza volta consecutiva un suo esponente al Quirinale senza mai aver vinto le elezioni. Bisogna riconoscerlo: la nemesi di un partito ormai senz’anima e asserragliato nei Palazzi ha un nome e un cognome, e si chiama Matteo Renzi, che è riuscito ad eterodirigerlo anche dopo averlo abbandonato. Già, perché questa volta il Rottamatore ha sorpreso tutti andando fino in fondo. Con la mossa del cavallo, dopo l’estate del Papeete aveva costretto Zingaretti – che voleva le elezioni – a fare il governo con Grillo, e ora lo ha messo con le spalle al muro disfacendo la tela che lui stesso aveva tessuto. Dopo aver fregato Salvini, insomma, ora ha consumato la sua vendetta con una vera e propria grande abbuffata, divorando in un colpo solo Conte, Grillo, Di Maio, Orlando, Zingaretti, Bettini, Grasso, Speranza e perfino il redivivo D’Alema, suo storico nemico che dell’alleanza rossogialla era diventato uno dei padri nobili.
Chi perde ha sempre torto, e per Zingaretti, Bettini e i governisti a oltranza del Pd presto arriverà il momento della resa dei conti interna. Il segretario ha infatti gestito la crisi con l’ottusità dei mediocri, impiccando la storia della sinistra a un parvenu come il professor Conte, difeso fino all’ultimo come insostituibile punto di riferimento. Loro, gli europeisti per eccellenza, non hanno nemmeno capito che l’avvocato del popolo era stato ormai scaricato per la sua inconcludenza da tutte le Cancellerie, preoccupate dai ritardi sul Recovery Plan che rischiavano di far crollare tutta l’impalcatura continentale. Il Carnevale per là nomenclatura ex diessina è finito: comincia una dura Quaresima, e tra le penitenze c’è anche l’amaro calice di un governo con Salvini.