La sinistra italiana non cambia mai postura, neanche di fronte alle sconfitte che sono come le ciliegie – una tira l’altra – e per tirarsi su cerca da tempo appigli in qualche parte del mondo per trarne conforto in chiave interna. Il Pd, in questo senso, è un’autentica calamita di successi altrui da celebrare in pompa magna, come se farli propri fosse un rito scaramantico per prefigurare un futuro migliore. Un po’ come nell’antica Roma si chiamavano gli aruspici a esaminare le viscere, insomma. Non può sorprendere, dunque, che l’inaspettata tenuta del Psoe di Sanchez in Spagna, con la flessione altrettanto inaspettata dei sovranisti di Vox, abbia suscitato dalle parti del Nazareno un entusiasmo a dir poco esagerato, con corollario di commenti beffardi di pseudo-intellettuali d’area e alte riflessioni politiche alla Nardella (“Dalla Spagna un messaggio bello e utile all’Italia e all’Europa”). Questa bizzarra abitudine iniziò ai tempi della prima ascesa di Obama alla Casa Bianca: il Pd aveva perso da poco la sua prima sfida elettorale alle elezioni politiche del 2008, ma vinse le regionali di novembre in Trentino, subito dopo le presidenziali americane, e questo bastò per convincere Veltroni che il vento era cambiato proprio grazie all’effetto-Obama. Ci pensò Arturo Parisi a ristabilire con amara ironia la realtà: “Meno male che abbiamo vinto in America – disse – altrimenti ci sarebbe da spararsi… L’Abruzzo è difficile da conquistare, ma ero convinto che l’Ohio non ce l’avrebbe rubato nessuno ed è nostro”.

Lo stesso copione fu recitato quando Biden spodestò Trump, tre anni fa, con una bizzarra corsa tra Pd e Italia Viva ad accaparrarsi Sleepy Joe, nell’illusione di aver vinto loro le regionali in Arizona e Pennsylvania dopo il riconteggio dei voti. Zingaretti, in vena di voli pindarici, descrisse addirittura la svolta americana come “l’alba di una nuova era progressista”, mentre Renzi paragonò Biden a Blair rivendicando che la sinistra vince solo al centro. Nella sinistra che brancola nel buio, insomma, ognuno cerca una luce straniera in fondo al tunnel, da Sanders all’impresentabile Corbyn, da Macron a Melenchon, e prima ancora erano stati Lula, Hollande e Zapatero gli improbabili punti di riferimento, per non parlare di Tsipras e perfino del falco antieuropeista Varoufakis. Riformisti e massimalisti in due decenni hanno durato una gran fatica, peraltro del tutto inutile, per ispirarsi a un modello di sinistra da importare che facesse risalire la china. Ora è la volta di Sanchez – che per la cronaca le elezioni domenica non le ha neppure vinte – incoronato dalla grancassa di dichiarazioni dem come il papa straniero di turno e il salvatore dell’Europa intera dalla minaccia dell’accordo eretico tra Popolari e Conservatori.

Sarà “adelante Pedro!”, presumibilmente, la colonna sonora dell’”estate militante” lanciata da Schlein, anche se non risulterà facile spiegare ai compagni delle Case del popolo rimaste in piedi che Sanchez sull’immigrazione, tanto per fare un esempio, la pensa come Giorgia Meloni. E c’è già chi chiede se Schlein vuole interpretare in Italia le politiche di Sanchez o quelle dell’estremista Yolanda Diaz, erede di Podemos che ha riunito i cespugli della sinistra radicale. La sinistra malata di provincialismo ha trovato quindi un’altra icona – e un altro pomo della discordia – illudendosi che per uscire dalla crisi basti imboccare una facile scorciatoia senza affannarsi in alcuna riflessione autocritica. Sarà però l’ennesima delusione: in Spagna infatti non ha vinto il Pd e – devono farsene una ragione – non ha neppure perso Meloni.