La surrettizia festa dell’amicizia che i capipartito hanno messo in scena al meeting di Cl non è riuscito a nascondere le profonde divisioni nella maggioranza su quasi tutta l’agenda politica (fisco, lavoro, pensioni, reddito di cittadinanza, Afghanistan, migranti e via dicendo). Curiosamente però, in aperta contraddizione con lo stallo in atto da due anni in Parlamento, dal confronto è emersa una larga convergenza su una riforma elettorale che preveda il voto di preferenza. Riepiloghiamo: per Letta “va garantito il diritto dei cittadini di scegliersi i parlamentari, senza che siano i leader a farlo”; Tajani ha usato un altro esempio per sostenere lo stesso concetto: “I deputati devono essere scelti e non estratti a sorte, uno che ha consenso vale più di chi ha meno consenso”; Giorgia Meloni, infine, ha detto – coerentemente con la posizione sempre tenuta da Fdi – che le preferenze “devono tornare perché una persona eletta dai cittadini risponde ai cittadini, una persona nominata dal segretario di partito risponde al segretario di partito”.
Ma le preferenze sono davvero il trionfo della democrazia rappresentativa oppure un deleterio ritorno al passato? Ho sempre diffidato della retorica delle preferenze come antidoto alla dittatura delle segreterie di partito: basti ricordare la Prima Repubblica, quando il Pci pianificava sezione per sezione chi doveva essere votato, e alla fine venivano sistematicamente eletti con le preferenze i candidati indicati dalle Federazioni. E se riavvolgiamo il nastro della memoria, il referendum del 9 giugno 1991, che abolì con un plebiscito le preferenze plurime, fu salutato come il successo della rivolta popolare contro la partitocrazia corrotta, e si disse che milioni di voti, soprattutto al Sud, erano stati finalmente sottratti al controllo clientelare o criminale.
Il Mattarellum, poi, col 75% di collegi uninominali e il 25% proporzionale con listino, eliminò del tutto il voto di preferenza con la motivazione che incrina la coesione dei partiti accentuandone il conflitto interno, spostando lo scontro politico dentro la stessa lista e inducendo i candidati a rivolgersi solo al proprio potenziale bacino elettorale e alle lobbies organizzate per prendere un voto in più del compagno di partito. Un meccanismo che faceva inevitabilmente lievitare il costo delle campagne elettorali con lo spiacevole corollario di dover rispondere poi più ai referenti esterni che al partito.
Obiezioni che ora trovano nuova linfa dopo il taglio dei parlamentari, che ha portato a rideterminare circoscrizioni e collegi elettorali del Rosatellum diminuendone il numero e ad aumentandone a dismisura l’estensione, con inevitabili conseguenze sull’effettiva rappresentatività delle Camere rispetto ai territori. Se il Parlamento alla fine riuscirà davvero a varare una legge proporzionale, il problema si riproporrà comunque, con l’aumento esponenziale delle spese dei candidati – altro che taglio dei costi della politica – per conquistarsi una preferenza in più e con l’impossibilità di rendere conto del proprio operato a un elettorato di riferimento eccessivamente frammentato e disperso.
Ma anche ammettendo che il ritorno al voto di preferenza segni davvero la rivincita della democrazia dal basso sullo strapotere delle segreterie dei partiti, soprattutto al Sud – dove le preferenze superano costantemente il 90% dei voti di lista espressi – con le norme attuali i candidati dovrebbero fare le campagne elettorali accompagnati da un buon avvocato, perché incomberebbe sempre il rischio del voto di scambio e del traffico di influenze. Auguri.