C’è un senso di impotenza, di quieta rassegnazione che serpeggia per il paese come se il corso degli eventi fosse già scritto e fosse impossibile, non dico invertirne la rotta, ma anche impercettibilmente variarne la traiettoria. Un po’ come il treno del tunnel del pamphlet di Dürrenmatt o, più prosaicamente, la locomotiva di Guccini che però, almeno quella, correva impazzita incontro alla giustizia proletaria.
Invece il mondo occidentale, costruito in duemila anni di storia, quello delle libertà civili e dei diritti sanciti in Costituzione di mete pare non averne alcuna. E prima ci diciamo che abbiamo sbagliato tutto, prima possiamo ripartire. Occorre avere la franchezza di riconoscere che chi è stato giudice a Norimberga dopo ha fatto lo stesso ma benedetto dal crisma della vittoria trovando nemici a ogni piè sospinto per giustificare di volta in volta le proprie manchevolezze.
Tralascio melense e tristanzuole riflessioni sulle guerre in corso, così come gli osanna e i peana tributati ovunque ai salvatori della patria. Sottolineo soltanto che se ci si salva ci si salva da soli (o insieme a Dio se si ha il dono della fede). In che modo? Non ho soluzioni facili a portata di mano. Magari parlare e parlare chiaramente. Le proteste fanno un sacco di bene. La stessa cosa fa candidarsi per un incarico e ricoprirlo con onestà. Insegnare la verità nelle università, nelle scuole, a casa propria. Scrivere, diffondere, dibattere. Informarsi consapevolmente.
Poi se può servire a pulire un po’ la coscienza si può andare a votare ma consapevoli che la sovranità popolare (sancita nell’incipit della Costituzione) spesso sarà la prima a essere sacrificata sull’altare dell’interesse generale: crisi economica, vincoli europei, pandemie e potrei continuare. Chiamatelo pure qualunquismo, ma al di là delle etichette è solo la consapevolezza di essere a fine corsa di un mondo che dalla storia non ha imparato niente, che è sorto dalle macerie e che solamente macerie, purtroppo, sta lasciando in eredità.