Dopo il via libera definitivo dell’aula di Palazzo Madama, i diciottenni potranno votare anche per il Senato, essendo stato abbassato il limite di età finora previsto a 25 anni, e il Pd si è affrettato a rivendicare con toni entusiastici che “ora i giovani non sono più cittadini di serie B” e che “il Parlamento afferma il proprio ruolo nell’aggiornamento costituzionale. Siamo, insomma, all’ennesimo trionfo della demagogia, visto che i ragazzi italiani di quella fascia di età – più di un milione dei quali è definito Neet in quanto non studia, non lavora e non fa formazione – si aspetterebbero semmai dalla politica più opportunità, ed assurgere al ruolo di elettori attivi per il Senato è probabilmente in fondo alle loro istanze.

Detto questo, va preso atto che dopo il taglio dei parlamentari, questa pazza legislatura ha partorito la seconda riforma costituzionale in tre anni: una specie di record vista l’incapacità storica della classe politica italiana di mettersi d’accordo sui massimi sistemi, come dimostra il puntuale fallimento di tutte le Bicamerali. Il problema vero, però, è la qualità delle riforme, e le ripercussioni reali che avranno sul funzionamento delle istituzioni e sulla vita dei cittadini. Dopo la riduzione dei parlamentari, ad esempio, il Pd di Zingaretti per giustificare il “contrordine compagni” e il suo voto favorevole, avvertì che bisognava porre mano a una serie di urgentissimi aggiustamenti normativi, a partire dalla legge elettorale e dai regolamenti delle Camere, per far fronte agli squilibri che il taglio provocherà nel prossimo Parlamento. Un allarme rimasto ovviamente lettera morta: nulla ancora si è fatto, mentre la spasmodica ricerca dei like sui social e la forsennata rincorsa alle parole d’ordine grilline ha partorito il taglio dei parlamentari e il voto ai diciottenni per il Senato, mentre Letta rilancia già con la proposta del voto ai sedicenni.

Se riavvolgiamo per un momento il nastro, gran parte del dibattito sulle riforme istituzionali si è concentrato sul superamento di un retaggio della storia come il bicameralismo perfetto, considerato ormai come un freno istituzionale alla necessità di mettere in sintonia la politica con le esigenze di un grande Paese industriale che ha bisogno di leggi chiare e di decisioni rapide perché la competizione globale non ammette ritardi. Per farla breve: andrebbe sveltito l’iter legislativo e non ci possiamo più permettere due Camere che svolgono le identiche funzioni, con i governi costretti a ricorrere sistematicamente alla questione di fiducia. E’ chiaro che siamo impantanati in un sistema che non funziona più.

Sarebbe dunque l’abolizione del Senato, o la sua trasformazione in Camera delle Regioni, l’unica riforma davvero utile.

Ebbene, l’equiparazione degli elettorati di Camera e Senato trasformerà invece il bicameralismo italiano da perfetto a più che perfetto, in controtendenza cioè non solo con lo spirito di tutti i precedenti tentativi di riforma, ma anche con le conclusioni a cui giunsero i Padri costituenti, che vollero conferire al Senato un ruolo diversificato, di Camera alta di riflessione in grado di correggere eventuali errori e forzature dell’altro ramo del Parlamento, pur all’interno di un bicameralismo paritario. Altri tempi: ora c’è solo il tentativo probabilmente vano, soprattutto dei partiti in crisi di consensi, di accaparrarsi i voti dei più giovani. Anche se l’unificazione dell’elettorato, per onestà, un beneficio potrebbe portarlo: l’impossibilità di avere d’ora in poi maggioranze diverse tra Camera e Senato. Ma dopo le convulsioni e i trasformismi di questa legislatura, non c’è da farci troppo affidamento.