La mia formazione culturale è di profilo liberale, convinto della sacralità dei diritti inalienabili della persona che nessun potere può ledere se non è sostenuto dalla dimenticata doppia riserva: di legge e di giurisdizione. Baluardi del vivere civile: la privacy, l’inviolabilità delle comunicazioni, l’intangibilità del domicilio a dispetto di chi loda sistemi invasivi fuori misura come se non esistessero innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti. Non sto, badate bene, dalla parte degli arroganti, degli incivili, dei furbetti. Penso che la legalità sia un valore fondante di una comunità; che la giustizia, quando non degeneri nel giustizialismo, sia un principio da perseguire sempre. Ma sono anche convinto che certi principi vengano prima dello Stato e del Governo i quali devono limitarsi a custodirli e difenderli. Purtroppo le cronache italiche, tutti i giorni, ci mostrano un Paese molto diverso da quello che questa cultura auspicava: la crisi dilagante ha aperto la strada a un regime giudiziario con la violazione di fatto, e talvolta di diritto, dei principi inviolabili. L’abolizione della prescrizione sarà la damnatio delle forze politiche che vollero questa barbarie. Ignorare la presunzione di innocenza un vulnus non sanabile dell’impalco dello stato di diritto. Si è dato vita in laboratorio a un pachiderma burocratico, a un grande fratello fiscale, senz’anima, senza futuro, senza dignità con governi alla mercé di affaristi, faccendieri, banchieri spregiudicati, burocrazia e superburocrazia . Accanto a questo si pone anche il problema della libertà applicata al denaro. Ho sempre ritenuto che per quella magia chiamata mercato l’egoismo di pochi potesse trasformarsi in benessere per molti. Così come ero e sono convinto che senza il tanto vituperato capitalismo, pur con i suoi risvolti negativi e il suo innegabile peso sociale, il mondo sarebbe stato assai peggiore. La riprova è laddove il liberismo è stato osteggiato provocando morte, carestie e disperazione. Perfino la Chiesa che dimenticando la parabola del Vangelo di Matteo dove il padrone benedice e ricompensa il servo al quale aveva affidato i talenti e costui invece di sotterrarli li aveva investiti generando frutti ha preferito, beatificare la povertà demonizzando la ricchezza come se ricchezza e povertà non fossero entrambe, di per sé, contagiose. Tuttavia di fronte alla deriva finanziarista, dove le borse contano più del risparmio, la speculazione più del lavoro, i mercati internazionali più del tessuto economico locale mi fermo e mi domando: fino a che punto può spingersi il mercato? C’è un momento in cui l’Etica insieme alla Politica devono dire basta? C’è un punto in cui si può anche spingere in basso l’asticella? È sufficiente il solo fatto che migliaia di giapponesi comprino una borsetta di pitone a 3.000 euro per rendere questo meccanismo giusto e moralmente accettabile? Ho sempre creduto che l’essere umano sia infinito e infiniti i suoi desideri, come ho sempre avuto fiducia nell’illimitatezza del mercato capace di rendere tutti più felici. Ma ora mi chiedo: fino a che punto può essere infinita l’ansia nel perseguire i propri desideri? Non ho una risposta. Sono convinto che la ricchezza sia una benedizione. Non so però fino a che punto.