Vorrei sfatare un tabù, quello della vantata superiorità morale della sinistra. Refrain caro a certi ambienti è la narrazione di destre retrocesse ad accolita di reduci del fascismo, malerba da estirpare per definizione, immeritevole di cittadinanza politica e di considerazione nell’agone dei valori e della dialettica, comunque ignorante e poco incline alla cultura.

La premessa sembra stridere con quanto sto per dire: in realtà sono convinto anch’io che le sinistre rivendichino non a torto la loro superiorità. Ma non declinata a loro modo come superiorità di pensiero, di valori, insomma antropologica tout court. La superiorità che la sinistra può vantare è una superiorità di metodo che inevitabilmente si riflette anche sul merito. Il popolo di centrodestra, maggioranza nel paese da sempre, è per lo più un popolo di elettori silenziosi, che non ama rivelare per chi vota e teme che il desiderio di riservatezza sia a rischio anche quando si è dentro la cabina col lapis in mano. È una maggioranza che non fa massa critica all’interno del Paese. Non crea dibattito, non protesta con continuità quando ce n’è l’occasione.

Si tratta di un gruppo variegato di individui, per la cui maggioranza “fare politica” non è cosa così onorevole e quel poco di impegno si riduce ai mesi di campagna elettorale, ogni cinque anni, ad andare a votare ogni tanto e una volta riposta nel cassetto la tessera elettorale se ne riparla alla prossima tornata. Un vecchio allenatore di calcio giovanile, quando si trovava a che fare con squadre particolarmente disastrate, era solito ripetere: “noi non vinciamo nemmeno se perdono gli altri!”.

Credo che questo brocardo di vita sportiva possa adattarsi bene a quanto spesso avviene nelle amministrazioni pubbliche dove il centrosinistra vince solo perché a perdere è il centrodestra. Il vulnus di tutto sta nella scelta della classe dirigente italiana non di sinistra che fin dal dopoguerra ha abdicato al proprio ruolo di guida, anche, culturale, occupandosi solo della politica politicata e lasciando che, di fatto, nei gangli portanti del sistema (tra i quali vi erano scuola, cultura, cinema, comunicazione) la sinistra trovasse la propria nicchia per fare propaganda e proseliti.

La teoria delle “casematte” di Gramsci si concretizzava. Questo modus operandi ha fatto sì che a sinistra la casta degli intellettuali abbia sparso e continui a spargere il proprio seme per il Paese, dalla Casa del popolo più sperduta alle più rinomate location vacanziere. I rari intellettuali di centrodestra, invece, fuori da un sistema organizzato di promozione e valorizzazione, hanno provveduto in proprio limitandosi a svolgere la loro attività meramente come mestiere e quindi, se invitati in qualche dibattito o talk show, spesso partecipano solo dietro cachet o con l’obbligo di acquisto di numerose copie dei propri libri. Riscoprire che “con la cultura si mangia” e si vincono pure le elezioni potrebbe essere una base da cui partire per rinfrescare un centrodestra molto spesso carico di slogan ma a corto di idee.