Sulla riforma della giustizia è in corso l’ultimo atto – ma non sarà quello finale – di una lunga guerra di potere che dura ormai da trent’anni e che ha messo in fibrillazione l’intero sistema distorcendo gli equilibri costituzionali con la sottomissione della politica all’ordine giudiziario. Inutile fare il riassunto delle puntate precedenti: da Tangentopoli in poi la magistratura si è di fatto impadronita dello Stato, accreditandosi un diritto di “supplenza” togliendo di fatto ai poteri legittimi – legislativo ed esecutivo – la delega di guidare il Paese, sovrapponendo la sovranità giudiziaria a quella popolare. Questo tritacarne ha stritolato carriere politiche e governi attraverso l’uso sistematico di una giustizia a orologeria davanti alla quale la sinistra ha sempre fatto da sponda per mantenere la sua fetta di potere. Per questo ogni tentativo di riformare la giustizia è puntualmente naufragato.
Lo scandalo Palamara ha scoperchiato uno scandalo di proporzioni spaventose, con un Csm, organo di rango costituzionale ridotto a circolo privatistico delle correnti organizzate, e con l’ammissione di vere e proprie strategie di persecuzione contro partiti considerati avversari politici dalle avanguardie ideologiche della magistratura, ai cui vertici operativi non si intravede ancora, però, qualche cenno di consapevole resipiscenza. Di fronte alla riforma Cartabia – che è davvero il minimo sindacale per rimettere in sincrono il sistema giudiziario con le basi della civiltà giuridica e con le esigenze di un Paese che non può più tollerare la finta obbligatorietà dell’azione penale, le carcerazioni preventive ingiustificate, e i copia e incolla con cui vengono troppo spesso avallate le richieste delle procure – la sfilata di alti magistrati nella commissione Giustizia della Camera ha mostrato il sostanziale arroccamento da parte di chi non vuol rinunciare nemmeno a una piccola quota del potere costruito sulla debolezza della politica. Quindi manda avvertimenti all’ala giustizialista del Parlamento con cui vige da decenni, salvo alcune eccezioni, un patto non scritto di collaborazione.
Decine di magistrati, soprattutto pm, si pronunciano in modo sistematico contro la riforma Cartabia, con nel mirino soprattutto la nuova disciplina della prescrizione, definita come un’amnistia per favorire i colletti bianchi in grado di cancellare 150 mila processi, come ha denunciato il presidente dell’Anm. E secondo il procuratore nazionale antimafia De Raho, la riforma della prescrizione minerebbe addirittura “la sicurezza del Paese” a causa della norma sulla improcedibilità. Per alimentare il fuoco di sbarramento, si ricorre spesso anche ad autentiche mistificazioni: Conte ad esempio ha sentenziato che mai permetterà che il processo per il Ponte Morandi vada in prescrizione, fingendo di non sapere che la riforma si applica ai fatti successivi al primo gennaio 2020, mentre il crollo del ponte risale a due anni prima, ragionamento che vale anche per i sette processi in corso contro la Ndrangheta che per il procuratore Gratteri sarebbero invece a rischio. La riforma, poi, fa salvi, nel caso in cui scatti l’improcedibilità, i diritti delle vittime dei reati, visto che sono comunque salve le cause per il risarcimento dei danni davanti al giudice civile. Vedremo ora cosa accadrà in Parlamento: Pd e M5S propongono che la prescrizione abbia un’entrata in vigore differita, ma sarebbe davvero una beffa se norme urgenti per velocizzare i processi partissero esse stesse in ritardo. Il virus giustizialista in Parlamento è duro a morire, così come sono ancora lontani i tempi in cui i magistrati si limiteranno ad applicare le norme senza pretendere di dettarle. L’unico vero vaccino per uscire da questa morsa infernale sono i referendum: ogni firma è un passo consapevole verso il garantismo e la civiltà giuridica.