Il Tribunale di Reggio Calabria, dopo cinque anni di dibattimento, ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex senatore del Pdl Antonio Caridi. L’accusa del processo “Gotha” aveva chiesto per lui una condanna a 20 anni di carcere. Il politico era stato indagato dalla Dda con l’accusa di fare parte di una associazione segreta con l’obiettivo di condizionare la politica cittadina e per avere agevolato le cosche De Stefano e Gullace, in cambio di sostegno elettorale. Con Caridi sono state assolte altre tredici persone che all’epoca degli arresti furono mischiate nel solito mazzo scandalistico dei titoloni a effetto tipo “Squarciato il velo della mammasantissima: ecco la Cupola della ‘N’drangheta”. E’ uno dei tanti e ordinari casi di malagiustizia a cui purtroppo siamo da tempo assuefatti, ma mi sembra opportuno raccontare cosa accadde nell’aula del Senato il 4 agosto di cinque anni fa. Era l’ultima seduta prima della pausa estiva, e fu approvata a scrutinio segreto – con 154 sì, 110 no e 12 astenuti – la relazione del presidente della giunta per le autorizzazioni, Stefàno, che dava disco verde all’arresto di Caridi.
Il presidente Grasso sembrava non avere pace se, prima di partire per le vacanze, non avesse consegnato alle patrie galere il senatore accusato di essere il terminale dei clan in Parlamento. Tanto che decise di invertire l’ordine del giorno dell’assemblea, rinviando a settembre il disegno di legge sull’editoria. In prima fila nell’ordalia giustizialista furono i Cinque e il Pd.
Ma quanti dei giustizieri d’aula avevano davvero letto le carte? Non c’erano in quell’aula né la solennità né la serenità richieste per una decisione grave come quella sulla libertà personale di un parlamentare, che intaccava l’integrità stessa del Senato: c’era semmai un clima inquietante di plotone d’esecuzione. Eppure, leggendo appunto le carte, le terribili accuse contestate a Caridi non apparivano suffragate da alcun riscontro; anzi, emergeva un quadro di valutazioni e congetture del tutto superficiali, e in parte contraddittorie, che non potevano certo giustificare l’arresto. Com’era possibile, ad esempio, che intercettazioni risalenti a quattordici anni prima venissero riprese acquisendo improvvisamente valenza probatoria? “Siamo di fronte a una procura – dissi nel mio intervento – che trascina per anni una vicenda così grave, perché si parla di un presunto capo della ‘ndrangheta; cioè si lascia in libertà per 14 anni un presunto capo della ‘ndrangheta e poi, all’ultimo momento, ci si accorge che va messo in carcere”. E aggiunsi, rivolto a Grasso: “La giustizia sommaria non è mai giustizia, perché superata l’emergenza emotiva che, troppo spesso si va in appello, l’emozione diventa rarefatta e il giudizio cambia. Si scopre che le indagini sono state incomplete, che le prove non erano poi così certe, che si afferma, ancora una volta, la verità alla Pasolini: so chi è il colpevole ma non ho le prove. Questa non è giustizia”.
Caridi ha fatto venti mesi di carcere duro. Prima di uscire dal Senato e consegnarsi a Rebibbia mi incrociò nella saletta fumatori e mi ringraziò, anche se il nostro ostruzionismo non era servito a nulla. “Sono una persona perbene”: ora glielo ha riconosciuto anche un tribunale, ma questa può davvero chiamarsi giustizia?