Il botta e risposta Meloni-Cucchi al Senato ha toccato un nervo sensibile della nostra democrazia fino dal ‘68, quando la prevaricazione contro la destra era considerata un diritto inalienabile. La storia tragica di quegli anni non ha purtroppo insegnato nulla a una certa sinistra, ancora intenta a giustificare i violenti che nelle piazze e negli atenei vorrebbero imporre la loro legge precludendo agli altri la libertà di manifestazione del pensiero. L’intervento della senatrice eletta a Firenze con i voti del Pd ha difeso i “nostri ragazzi” che a La Sapienza “sono stati affrontati come terroristi per il semplice fatto che essi – poveri – credevano di avere ancora il diritto di protestare, di far sentire la loro voce, in modo del tutto pacifico oltretutto”, e ha condannato “i modi violenti e disumani con i quali sono stati trattati” da parte della polizia in un luogo “sacro”. Ma è proprio la sacralità degli atenei rivendicata da Cucchi a dimostrare la strumentalità del suo ragionamento, perché dove si forgia la classe dirigente del futuro è necessario che vengano fatte rispettare le regole basilari della democrazia, e i picchetti per impedire agli altri di riunirsi ne costituiscono una evidente violazione.

Il convegno contro cui è scattata la mobilitazione all’insegna del motto “Fuori i fascisti dalla Sapienza” era peraltro un dibattito autorizzato a cui erano stati invitati Fabio Roscani, considerato reo di essere “presidente di Gioventù nazionale dal 2017 e deputato di Fdi dal 13 ottobre 2022”, e Daniele Capezzone, messo all’indice perché “Ex portavoce della prima Forza Italia e del Popolo della Libertà”. Due militanze in partiti democratici ma, in quanto non di sinistra, ritenute sufficienti per essere considerati nemici del popolo dai Collettivi. Ebbene: ribaltare sulla polizia la responsabilità degli incidenti è un vecchio riflesso basato sull’inversione ideologica del principio di realtà, perché irrompere nei locali dell’Università per impedire un convegno regolarmente autorizzato non è mai l’affermazione di un diritto, ma semplicemente un reato.

“Attenti al fascismo degli antifascisti”, ammoniva Pasolini, ricordando all’intellighenzia del pensiero unico che la libertà di espressione deve essere consentita a tutti. Negli anni di piombo uno degli slogan più gettonati nei cortei era “Ps- Ss”. Ecco: visto il moto di indignazione che ha suscitato a sinistra l’intervento della polizia a La Sapienza, forse sarebbe utile la rilettura di una celebre poesia di Pasolini (“Il Pci ai giovani”) che sconcertò i contestatori di allora aprendo gli occhi sul fatto che oltre la rivoluzione studentesca c’era una vita reale, una società in cui anche i poliziotti, guardiani dello Stato, erano ragazzi che potevano diventare vittime e sfruttati. Il ruolo degli intellettuali dovrebbe essere proprio quello di far riflettere, e Pasolini, col suo crudo anticonformismo, in questo fu inarrivabile, con un messaggio che resta profondamente attuale. “Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente…/Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti/ io simpatizzavo coi poliziotti! /Perché i poliziotti sono figli di poveri./ Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”.

Per onestà intellettuale va detto che Pasolini diede poi l’interpretazione autentica di quella poesia che correggeva in parte il tiro, dicendo che il suo bersaglio in realtà era il potere costituito che faceva dei poveri poliziotti, oggetti di un odio razziale a rovescio, degli strumenti […]: le caserme vi erano dunque viste come ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Ma pur riconoscendo ai contestatori “di essere dalla parte della ragione” mentre i poliziotti “dalla parte del torto”, Pasolini li redarguiva così: “Bella vittoria, dunque, /la vostra! In questi casi/ ai poliziotti si danno i fiori, amici”. Dando così un giudizio problematico, se non impietoso, di quella “lotta di classe”.