Dopo l’addio ai Cinque Stelle degli scissionisti di Di Maio questa legislatura si sta avviando a battere ogni record di passaggi da un gruppo all’altro: un fenomeno messo all’indice ma che trova una solida copertura nell’articolo 67 della Costituzione che recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato”. Un articolo illuminato, che fu scritto per garantire l’assoluta libertà di espressione ai membri del Parlamento senza alcun vincolo né verso il suo partito, né verso il programma, né verso gli elettori. Fu stabilito dunque il divieto di mandato imperativo, e non ci si pose il problema se questo principio liberale potesse essere usato non per una scelta ideale, ma per convenienza personale: i principi sono infatti tali proprio perché valgono sempre. Quando il Senato, approvando nel 2017 il nuovo regolamento, volle mettere un argine al trasformismo, le poche voci di dissenso fecero notare che una cosa è scoraggiare i frazionismi opportunistici, tutt’altra invece demonizzare per via burocratica le scissioni determinate da profonde motivazioni politiche, che avrebbero sempre diritto a un’appropriata rappresentanza parlamentare. Si potrebbero citare precedenti storici illuminanti, a partire dal Connubio tra Cavour e Rattazzi, ma, si parva licet, e senza offendere la storia, fa riflettere che Renzi abbia dovuto chiedere il simbolo a Nencini e Di Maio a Tabacci.
Sono anche questi i frutti avvelenati dell’onda populista che ha travolto l’Italia e che ora sta producendo effetti paradossali e grotteschi. Dai tempi di Razzi e Scilipoti – insultati dalla sinistra per aver meritoriamente ritardato il rovesciamento del governo Berlusconi – l’ostracismo verso i vituperati voltagabbana è diventato un concentrato di ipocrisia intermittente come il garantismo, una sorta di stigma morale declinato a seconda delle convenienze politiche.
Ed eccoci al paradosso di questa legislatura, che era nata all’insegna di un mantra unificante: mai più “responsabili”, mai più opportunisti che rinnegano il voto popolare cambiando schieramento per convenienza. Un imperativo ammantato di etica – in palese contraddizione con i principi costituzionali – che fu subito trascritto nel contratto del governo del cambiamento con parole definitive: “Introdurre forme di vincolo di mandato per contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo”. I Cinque Stelle, col piglio dei rivoluzionari giacobini, avevano perfino previsto nello Statuto multe draconiane per i fuoriusciti.
Ma cos’è successo poi? Un crescendo rossiniano di contraddizioni: Cinque Stelle e Lega si allearono dopo una campagna elettorale su barricate opposte; Pd Renzi e grillini ordirono un ribaltone senza precedenti per poi convergere nello stesso governo di unità nazionale; Conte, premier di due governi di opposto colore, dopo aver giurato di voler restituire alla politica “la sua nobile vocazione” – e liquidato come pura fantasia l’ipotesi di andare a caccia di maggioranze alternative” – fece carte false alla ricerca di “costruttori” di ogni estrazione per mantenere la poltronissima di Palazzo Chigi. Un teatrino preceduto dalle accuse alla Lega di aver aperto “il mercato delle vacche” e dall’intimazione a Salvini di tirar fuori “il listino prezzi di quanto costa un parlamentare al chilo”. Alla fine, il bilancio è desolante, perché la legislatura nata con la rivolta contro il trasformismo rischia invece di passare alla storia – mancano ancora nove mesi – con il record di transfughi, visto che già ora la media è di nove passaggi di gruppo al mese, e la somma che fa il totale arriva a 394, con in testa proprio il Movimento che invocava il vincolo di mandato. A dimostrazione che il problema non è affatto il trasformismo, ma la selezione della classe politica.