Sembra incredibile, ma mentre l’Italia affonda nella crisi del Covid, Pd e Cinque Stelle hanno un’unica grande priorità: la nuova legge elettorale – il Germanicum altresì detto Brescellum – per garantire non la sopravvivenza del Paese, bensì quella del governo. Ma parlare oggi a un comune cittadino di proporzionale e maggioritario significherebbe essere presi a sberle, per cui forse è meglio buttarla in ridere, visto che siamo in mezzo a una farsa. Del resto è da tempo immemorabile che la politica si rifugia in neologismi e latinismi, nel tentativo di darsi un tono e di coprire la sostanza che manca con la forma. Se la Prima Repubblica era stata una palude praticamente immutabile, dominata per tre decenni dalla “conventio ad excludendum” e dalle convergenze parallele, nella cosiddetta Seconda e nel suo caos creativo il vocabolario politico si è talmente arricchito (o impoverito?) da mettere in difficoltà gli stessi accademici della Crusca. Qualche esempio? La parola ribaltone ha sostituito in termini più grevi l’antico trasformismo italico aggiornando i passaggi di campo alla statura dei protagonisti: da Agostino Depretis a Clemente Mastella per finire a Giuseppe Conte, il premier a governi alterni, di destra e di sinistra, tutto fa brodo. E poi inciucio, falchi e colombe, rottamatori e pitonesse. Per non parlare dell’uso ormai quotidiano di termini mutuati dall’economia (spread, deficit, derivati, patto di stabilità e via dicendo).
Ma il capolavoro, dal punto di vista della fantasia lessicale, è arrivato col battesimo delle leggi elettorali. Fino ai primi anni Novanta il problema non si era mai posto, vigendo quella proporzionale che era lo specchio esatto della rappresentanza politica e a cui nessuno si era mai neppure sognato di dare un nome.
Ma allora da quando e perché le leggi elettorali finiscono tutte in “um”?
La prima fu il Mattarellum. In un articolo del 1993 il politologo Giovanni Sartori, molto critico sulla sua utilità, scrisse “habemus Mattarellum”, riferendosi al relatore della legge, nonché attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il termine ebbe un tale successo che quando venne poi varata la nuova legge per le regionali, ideata da Pinuccio Tatarella, fu rapidamente soprannominata, appunto, Tatarellum. Da allora è iniziata una deriva praticamente inarrestabile nel segno del latino maccheronico, alias latinorum. La vittima successiva fu la legge ideata dal genio di Calderoli, che in realtà ebbe molti patrigni perché faceva comodo a tutti: quella dei listoni bloccati. Col sarcasmo che gli è congeniale, Calderoli battezzò la sua legge come una porcata e quindi, dopo il Mattarellum e il Tatarellum, ecco comparire nel gergo politichese il leggendario Porcellum. Al quale sarebbero seguiti, nei vari tentativi abortiti di riforma elettorale il Verdinellum, il Toscanellum, il (sic) Democratellum, lo Speranzellum, il Grechellum, il Provincellum, il Legalicum e l ’Italicum. Fino al Consultellum e all’ultimo vigente, il Rosatellum bis, che nella sua versione precedente aveva assunto perfino le sembianze del Fianum. E oggi siamo arrivati al Germanicum, per le presunte affinità col modello tedesco, a cui Forza Italia ha contrapposto il Sistum. Basta così: l’unico rammarico è che il sempiterno Casini non si sia mai intestato la paternità di una legge elettorale, la cui declinazione in “um” descriverebbe lo stato dell’arte meglio di qualunque altra. Il Casinum, appunto.