Nella settimana del giuramento di Joe Biden in Italia si è consumata la notte della Repubblica, per dirla con il titolo di una celebre trasmissione di Giovanni Minoli. Ma non vi è da scandalizzarsi più di tanto su quello che è stato definito “mercimonio” di parlamentari che è, in realtà, un mercato duraturo e continuativo, caratteristico di un po’ tutte le legislature. E soprattutto non è credibile che questo venga denunciato da chi ha avuto svariate volte responsabilità di governo e su temi quali il vincolo di mandato, ma anche la separazione delle carriere e la responsabilità dei magistrati, la riforma del fisco, e potrei continuare, non solo non ha fatto niente, ma ha fatto peggio. 
Non so se questo governo durerà e, se sì, quanto, ma è proprio la domanda a essere errata. Ci si concentra sull’effetto anziché affrontare, di petto, la causa. Tomasi di Lampedusa ne “Il gattopardo”, per bocca del principe di Salina, ebbe a dire, con una formula che rimarrà proverbiale: “cambiare tutto perché niente cambi”. Formula che ai addice a quanto vediamo accadere quotidianamente. Chi esulta, infatti, per la cacciata di Trump e in parallelo per la tenuta del Governo Conte (e viceversa) non solo non ha capito il problema ma non lo ha nemmeno inquadrato alla lontana.
La politica, ormai da una decina d’anni, è relegata a serva di poteri che non solo la indirizzano ma la determinano. La sovranità popolare è rivendicata sì al primo articolo della nostra Costituzione che però se la dimentica per gli altri 138. L’Europa, in generale, è nel collo di bottiglia di una caduta malinconica e definitiva della quale, purtroppo, abbiamo preso, e in pochi, consapevolezza troppo tardi. E continuiamo a credere che basti cambiare interpreti per cambiare lo spartito. 
Mutatis mutandis è ciò che avviene negli Stati Uniti dove 4/5 multinazionali della Silicon Valley indirizzano le azioni del governo federale a scapito di milioni di americani e il presidente entrante, molto spesso, l’unica cosa che riesce a fare, al di là della retorica, è cambiare gli arredi dello studio ovale. Non occorreva una guerra mondiale per azzerare la classe media, degradare il risparmio da valore a colpa, accentrare il potere dalle comunità locali alle grandi elites finanziarie, rendere tutti più poveri per essere meglio controllati.
Come disse Carl von Clausewitz: la politica, certa politica, non è che la guerra continuata in altre forme. Il Covid, poi, ha offerto un assist formidabile nella definitiva opera di screditamento delle istituzioni, riunione dei poteri nelle mani di pochi, azzeramento della ricchezza privata. Tuttavia si può mentire a pochi per tanto tempo o a molti per poco, ma non a tutti per sempre e i fatti, si sa, sono testardi. Sono passati 10 anni da quando Mario Monti prese in mano l’Italia tra i peana e gli osanna generali per salvarla dal baratro. Ma è di questi giorni il rapporto 2020 della Caritas Toscana secondo cui dal 2008 al 2018 i poveri assoluti sono passati da 65.000 a 171.000 e le famiglie povere da 31.000 a 81.000. L’incremento dei nuovi poveri è pari al 45%. Il tutto in un quadro in cui 3 milioni di italiani nell’ultimo anno hanno smesso di curarsi. Sono numeri terrificanti, difficili da nascondere, dopo decenni di benessere e capitalismo, che stridono con quella parte di Italia garantita e tutelata a prescindere. 
Col rischio di scadere nel prosaico mi viene in mente il ritornello di una canzonetta di Rita Pavone: “la storia ci ha insegnato che il popolo affamato fa la rivoluzione!”. Non so se il tappo sia arrivato davvero alla fine della bottiglia, di sicuro è arrivato il momento che la politica torni a dettare l’agenda e si occupi di una emergenza sociale senza pari riacquisendo la sua centralità. Quanto prima, o non ci saranno senatori, convertiti all’ultimo momento, che salveranno la baracca.