L’anno vecchio è finito ma qualcosa ancora qui non va, cantava Lucio Dalla e con una strofa si può sintetizzare un paese che ancora, ostinato, sembra voler fermare il vento con le mani in un frangente in cui tutti mettono in campo l’artiglieria pesante e noi siamo a condurre una guerra epocale con cavalli e baionette. Non so dirmi, personalmente, se continuo a combattere perché non mi arrendo mai o se mi sono arreso e per questo continuo a combattere. Forse sono, ancora, intimamente convinto che questa Italia scalcinata potrebbe essere cambiata se solo, con un moto di orgoglio, avessimo il coraggio di buttare a mare una classe dirigente inadeguata e riprenderci quel che è nostro. Quella sovranità popolare che la Costituzione riconosce appartenere al popolo al primo articolo, salvo poi scordarsene per altri centotrentotto. Non voglio fare filosofia ma provare a mettere in fila alcune riforme che, se attuate, potrebbero, non dico risuscitare il paziente agonizzante, ma almeno dargli la prospettiva di una vita più serena. Riforme che, con due governi tecnici (ergo, astrattamente svincolati da interessi partitici particolari) nemmeno sono state sfiorate o se si è tentato, la pezza è risultata peggiore del buco. 1) Rendere (al netto del gioco di parole) centrali gli organi periferici, autentica architrave della Repubblica. Decentrare i poteri, valorizzare il ruolo dei Sindaci, ripristinare le Province e ripensare, se non all’abolizione, almeno al ridimensionamento delle Regioni (veri e propri centri di costo, di spesa e di spreco dello Stato). 2) Abbandonare la scellerata riforma dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, scritta sull’onda giacobina del grillismo, che ha consegnato le formazioni politiche alla mercè di affaristi pronti, alla bisogna, a rimettere il conto a ogni passaggio parlamentare. Donazioni spesso opache e poco trasparenti con conflitti d’interesse palesi ci hanno consegnato partiti impoveriti e abbandonati a costruttori, mobilieri, cliniche private e università. 3) Riprendere e attuare il federalismo fiscale, quello di Gianfranco Miglio più che della Lega di Salvini per consentire agli enti locali di governare con risorse proprie i territori stabilendo una meritocrazia tra istituzioni virtuose che oggi governano sotto l’occhio asfissiante di Corte dei Conti e tribunali amministrativi mentre Comuni e Regioni cicale sperperano, consapevoli che tanto alla fine arriva lo Stato a togliere le castagne dal fuoco. 4) Riforma del sistema fiscale che abbandoni la progressività, costituzionalmente prevista, che disincentiva a produrre di più a fronte di un aumento vertiginoso delle aliquote e di quello bancario che porti alla divisione di istituti di credito che raccolgono il risparmio e fanno prestiti da quelli che fanno speculazione. Mi fermo, consapevole di poter continuare all’infinito. In fondo Mario Draghi era stato chiamato per questo. Se il suo ruolo, che fa a pezzi la democrazia e la centralità del Parlamento, si limita a cambiare ogni settimana le regole del Green pass ci accontentavamo dei peggiori Conte o Gentiloni.