Il Pd ha presentato al Senato una mozione sulle “date fondative della nostra Storia antifascista”, chiedendone il voto in aula questa settimana allo scopo manifesto di scaldare le piazze del 25 aprile. Sotto il mantello delle buone intenzioni – rispetto della verità storica, mantenimento di un’identità collettiva, senso di appartenenza – si nasconde dunque il vecchio vizio di piegare alla propaganda ricorrenze come la Liberazione e la Festa della Repubblica, oltre al Primo Maggio, che comunque è sempre stato un trionfo di bandiere rosse. E’ certo necessario, come recita la mozione, che le istituzioni si adoperino per “la trasmissione della conoscenza della Storia, frutto del rigore della ricostruzione storica unitaria e condivisa”. Ma in questo senso il primo mea culpa dovrebbe farlo proprio la sinistra, che ha sempre usato il 25 aprile come un suo feudo identitario, emarginando e cacciando dai cortei anche chi il nazifascismo lo aveva combattuto in prima linea, come i partigiani bianchi e la Brigata ebraica.
Giampaolo Pansa, che sul secondo Dopoguerra rivelò con i suoi libri le scomode verità del triangolo rosso, spiegò il progressivo distacco emotivo dal 25 aprile proprio col fatto che la Liberazione era ormai diventata “un’adunata di tutte le sinistre regressiste, che coprono di insulti chiunque parli dal palco e non appartenga al loro clan… Di fronte a questi episodi risulta evidente che sia diventata una festa senza senso. Ecco perché l’opinione pubblica diserta questi appuntamenti: non la sente come festa nazionale, perché connotata da un antifascismo autoritario, che esclude, anziché includere”.
Il copione del confronto parlamentare è dunque praticamente già scritto, e cela in realtà l’obiettivo opposto a quello di unire, perché si risolverà in un’escalation di accuse alle irrisolte ambiguità della destra nei confronti del fascismo, col retropensiero della perenne emergenza democratica. Di fronte alla riproposizione di tutti questi armamentari, sarebbe l’ora che la maggioranza mettesse tutte le carte in tavola per stanare gli eredi del Pci dalla rendita di posizione ideologica accumulata in decenni di egemonia culturale, e ricordare – proprio per rispetto della verità storica – perché al paradigma antifascista su cui fu scritta la Costituzione non si aggiunsero anche l’anticomunismo e il ripudio di tutti i totalitarismi. A questo proposito, c’è un’altra data da segnare tra quelle decisive per il destino della nostra democrazia: il 18 aprile del 1948, giorno delle storiche elezioni che impedirono all’Italia di diventare un satellite dell’Unione Sovietica.
Esattamente 75 anni fa il popolo sovrano fu chiamato a un’inequivocabile “scelta di campo” tra due antitetiche visioni del mondo, tra due diversi modi di intendere l’economia, la libertà, la stessa democrazia: o il tallone di Stalin, che col colpo di Stato a Praga stava sovietizzando l’Est europeo, o l’Occidente delle democrazie liberali. Ebbene: la vittoria della Dc di De Gasperi contro il frontismo di Togliatti e Nenni scongiurò il rischio di passare dal Ventennio fascista alla dittatura del proletariato. Sono passati tre quarti di secolo, ma nulla si è ancora fatto per celebrare quella data storica, che ci ha consegnato una democrazia forse imperfetta, ma anche decenni di libertà e di progresso sotto l’ombrello della Nato. Sarebbe davvero opportuno che nel dibattito al Senato qualcuno dicesse alto e forte che il 18 aprile del ’48, come il 25 aprile del ’45, fu anch’essa una data degna di memoria su cui costruire una verità storica condivisa. Sarebbe un modo per smascherare l’ipocrisia e gli oblii di una certa sinistra, che la storia l’ha sempre riscritta con la penna rossa e con troppi omissis.