“Divise dal Mondo, separate tra loro da distanze assurde, senza alcun conforto della vita civile”  queste le parole che pronunciò Ferdinando II al termine della sua prima visita nelle terre calabre. Era il 1852. 170 anni dopo, le impressioni sarebbero più o meno analoghe per il monarca borbonico. A star dietro infatti alle cronache quotidiane che giungono da quelle terre, ci si accorge che ancora, nulla o quasi pare funzionare come dovrebbe, con l’aggravante di una pervicace ricorrenza di comportamenti illeciti e di una ormai patologica inefficienza nell’amministrazione della res publica, troppo spesso fatte semplicisticamente ricondurre alla sola complicità col metodo mafioso. Talvolta infatti vi è ben altro: una vera e propria “vena di sedizione antistatuale” (Goffredo Buccini -Corriere della Sera )- che pare riaffiorare in Calabria, direttamente dall’Italia pre-unitaria. Un fattore culturale che genera un’ostilità talvolta addirittura ostentata nei confronti del governo centrale; per comodità la si riconduce quasi sempre al proliferare dell’anti-stato mafioso, in realtà vi è anche un retroterra culturale, diretta conseguenza delle dominazioni straniere subite per secoli. Lo  Stato è il nemico a cui ribellarsi sempre e comunque; l’usurpatore che impone governanti di pessimo conio per terre da vessare con imposte e gabelle. Se non vi è stata una sostanziale inversione di tendenza dopo l’unità d’Italia, vi è anche una responsabilità dello stato post-unitario, che in quasi due secoli, ha fatto di tutto per essere considerato dai calabresi, un degno epigono dei predecessori borbonici. Emblematica in tal senso, la scandalosa vicenda della sanità calabrese: commissariata per dieci anni senza risultati, con bilanci regionali  “basati sulla tradizione orale” (Tremonti) e buchi spaventosi come quello della ASL di Reggio Calabria (oltre il miliardo). Oggi, in piena pandemia e dopo aver “bruciato” l’ennesimo commissario inadeguato ed imbarazzante imposto dallo Stato centrale (in stile borbonico) il Governo dato il via ad un insopportabile balletto che dura un mese, per trovare il sostituto. Così facendo, Roma ha aumentato ulteriormente la sfiducia nelle Istituzioni da parte dei calabresi. Ma non solo la loro. Perché il caso Calabria, seppur con le dovute proporzioni, è il caso Italia. La Calabria ha solo acuito il sintomo, mostrandocela nella sua acme. Ma la malattia è diffusa più o meno ovunque nel nostro paese. Le inefficienze calabresi si ritrovano, seppur gradatamente, ovunque nella penisola. Così come il merito violentato dalle incapacità troppo spesso premiate; od i protagonismi locali, che danno origine a sub-sistemi politici, ognuno col proprio ras – Sindaco o Presidente di Regione, poco conta – che con atteggiamenti dispotici e tronfia consapevolezza di sé, pretende di fare e disfare, voltando le spalle ai partiti, disponendo del territorio come fosse il giardino di casa e dei cittadini come fossero sudditi da premiare o blandire, a seconda delle convenienze del momento o anche solo dell’umore. Un localismo che sta rovinando il giusto concetto di autonomia dei territori, anche per colpa di un Governo centrale che latita, in Calabria come nel resto d’Italia, per tatticismo ma soprattutto per patologiche deficienze e che preferisce osservare sempre un passo indietro, in ossequio al vecchio adagio che “chi non fa non falla”, nella speranza di tirare a campare. Impossibile allora non ripensare a Ferdinando II “Divise dal Mondo, separate tra loro da distanze assurde, senza alcun conforto della vita civile” le cui parole risultano tristemente attuali anche per l’Italia, ancora così divisa nonostante l’unità.