Parlare di riforme costituzionali in Italia è da sempre pericoloso e l’esito è scontato: prendersi dei revisionisti storici, quando va bene; dei sovvertitori dello status quo nel peggiore dei casi. L’idea dell’immutabilità della Carta ha fatto sì che la Costituzione, anziché essere materia viva (com’è per sua essenza il diritto) si è trasformata in un feticcio da adorare pur nella consapevolezza della sua naturale vetustà. Ciò impedisce un serio dibattito sulla necessità di riforma: persino Santa Romana Chiesa “semper reformandam est”. La Carta nacque dal compromesso di forze politiche e culture antitetiche. Naturale il parto di un testo ingessato e generico, capace di ogni tipo di responso. Vi sono costituzioni più indefinite, ma figlie di una cultura prevalente o più particolareggiate, ma ineludibili. La nostra Costituzione spesso, anziché essere una leva per rilanciare il paese, ha finito per imbrigliarlo nelle sue divergenti letture e nei suoi meandri interpretativi. La politica “politicamente corretta” ripete che la prima parte della Costituzione è intoccabile quando invece urgerebbe mettere mano alla seconda, quella relativa all’ordinamento dello Stato. Di converso è anche la prima parte a necessitare di una rilettura, per mantenere il passo coi tempi e far riacquisire competitività contemporanea al paese e l’esercizio pieno delle libertà alle persone. Una Costituzione di cultura occidentale dovrebbe fondarsi sulla ‘ liberta’ di cui il lavoro equamente retribuito è la prima manifestazione. Non viceversa. Andrebbe rivisto un ossimoro sul quale quasi nessuno ha posto l’accento: la sovranità sì ‘appartiene al popolo ‘ma che la esercita nelle forme e nei limiti previsti: la sovranità tuttavia o è illimitata o non è. Non importa rileggersi i maestri del pensiero liberale per comprendere che i cittadini riuniti in comunità vengono prima dello Stato al quale essi delegano parte della propria libertà per un bene comune collettivamente esplicabile. La limitazione della sovranità è la chiara impronta di una matrice dirigista e accentratrice mai sopita nemmeno con la caduta del fascismo, presente anche nelle culture comunista e cattolica. Lo stesso dicasi del sistema tributario (art. 53) che introducendo il principio della progressività in nome di una pretesa giustizia sociale impedisce qualsiasi efficace intervento per un fisco equo e a misura di cittadino. Last but not least la previsione dei senatori a vita (art. 59): nessun stato democratico può concepire la previsione monarchica di cariche a vita. Per venire all’attualità diminuire il numero dei parlamentari può essere cosa buona e giusta. Farlo a colpi di spot senza una chiara visione delle cose diventa deleterio col rischio di deligittimare l’intera classe politica. Occorre snellire il sistema di conventicole, camarille, ordini professionali, pletore di raccomandati molto più numerosi e dispendiosi dei mille e rotti parlamentari e riportare al centro la persona, le sue libertà fondamentali, diminuendo il peso e l’ingerenza dello Stato. Questa è la vera sfida che dovrebbe porsi una riforma seria. Sfida che nessuna forza politica, mi pare, abbia intenzione di raccogliere.