L’attentato di Capaci resta ancora la sfida più terribile che Cosa Nostra ha portato al cuore dello Stato: a ordinarlo fu la mafia stragista di Totò Riina e dei corleonesi, con un attacco senza precedenti che scosse la coscienza del Paese mentre il Parlamento era riunito in seduta comune per eleggere il presidente della Repubblica. Il bersaglio non fu scelto a caso: Falcone era stato infatti il primo magistrato a scardinare gli ingranaggi e a scovare i labirinti del sistema operativo di Cosa Nostra, istruendo un maxiprocesso di portata storica che si concluse con 346 condanne, il più grande colpo mai inferto in Italia al potere mafioso. La solennità delle celebrazioni di ogni 23 maggio per onorarne la memoria è quindi un omaggio doveroso, ma dietro l’ufficialità resta sempre un sottofondo mai rimosso di ipocrisia: Falcone era già in vita un simbolo, un giudice-eroe lontano anni luce dalla cultura del sospetto, che non piegò mai la realtà ai teoremi giudiziari: per questo fu avversato dai professionisti dell’antimafia e isolato da chi, invece di promuoverlo, ne smantellò addirittura il pool che aveva fortemente voluto. Fu il Guardasigilli Martelli, socialista, a nominarlo direttore generale del ministero, e questo gli moltiplicò i nemici interni. “Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo Paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988”, dirà dopo la strage Paolo Borsellino, il collega e l’amico che più di tutti ne condivise la strada e che subì poco dopo la stessa sorte. E deve far riflettere che i processi per quelle stragi siano stati minati da errori incredibili e depistaggi su cui non è ancora stata fatta piena luce.
Ombre e sospetti che, dopo le rivelazioni di Palamara e lo scandalo Amara, restano drammaticamente attuali, specchio di una giustizia che non funziona e che ha progressivamente perso la fiducia dei cittadini.
Falcone non è stato solo un magistrato-simbolo, ma anche un coraggioso fautore della separazione delle carriere, come testimonia questo suo scritto: “La faticosa consapevolezza che la regolamentazione della carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro della controversia il giudice”. Tema da affrontare senza paure, aggiunse, “accantonando lo spauracchio della dipendenza del pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, puntualmente sbandierati quando si parla di differenziazione delle carriere”. Falcone aveva dunque già indicato la riforma cardine per un sistema giudiziario più credibile ed equilibrato. Ma dopo trent’anni la strada della giustizia resta lastricata di resistenze corporative, di Corvi, di dossier e di veleni in nome di un’indipendenza declinata come un potere assoluto e inattaccabile. La storia recente insegna che troppo spesso i pm, trasformando l’obbligatorietà dell’azione penale in una sconfinata discrezionalità, sono riusciti a imporre il principio della presunzione di colpevolezza dando vita a inchieste poi cadute nel nulla ma dopo che gli imputati erano già stati condannati in via preventiva dal circuito mediatico-giudiziario. L’esatto contrario della lezione di Falcone, che andrebbe ricordata nei fatti ogni giorno dell’anno, non solo – ipocritamente- il 23 maggio.