Ricorre il centenario della nascita del Pci, una data che ha segnato la storia del Novecento.Nel congresso di Livorno l’ala massimalista e quella comunista sconfissero con una maggioranza schiacciante il riformismo di Turati sottoscrivendo i 21 punti di Lenin per incamminare l’Italia nel solco della Rivoluzione d’Ottobre. La svolta favorì l’involuzione autoritaria già in atto aprendo la strada al fascismo benedetto dalla grande industria e dalla piccola borghesia impaurita, con la resa definitiva della democrazia liberale incarnata dal tremebondo profilo di Facta. La storia ha poi reso giustizia a Turati, ma l’egemonia politica e culturale comunista, dopo il Ventennio e la seconda guerra mondale, ha condizionato in negativo l’evoluzione della sinistra e reso la democrazia italiana un’anomalia nel mondo occidentale, importando la guerra fredda nella carne viva di un Paese diviso in due schieramenti ideologici senza possibile alternanza di governo. Una democrazia bloccata dal “fattore K” in cui la componente socialista della sinistra ha prima pagato sulla propria pelle la scissione del ’48, quando Saragat rifiuto’la sciagurata scelta frontista di Nenni, e poi, a partire dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56 si è gradualmente affrancata dalla sottomissione al Pci dando vita ai governi di centrosinistra con la Dc al prezzo di un’altrascissione, quella del Psiup.

Una storia travagliata di fronte alla quale il monolite comunista non ha mai dato alcun segno di riflessione autocritica, mantenendo fino agli ultimi anni della Prima Repubblica il rapporto privilegiato con Mosca e inquinando la politica italiana attraverso il flusso ininterrotto dei finanziamenti sovietici. Un filo rosso mai interamente spezzato, neanche quando Berlinguer proclamò di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato. Tanto che i leader di allora della Fgci – all’inizio degli anni Ottanta – sfilarono nelle piazze italiane per protestare contro la decisione di Craxi di far installare i missili Cruise e Pershing nelle basi italiane per fronteggiare gli SS20 che Breznev aveva puntato contro le capitali europee. I futuri leader del Pds, che ora sono gli epigoni di sé stessi, sfilarono insomma senza ritegno a fianco dell’imperialismo sovietico sulle orme dei partigiani della pace degli Anni ’50.

Alla luce di questi fatti, sconcertante – ma non sorprendente – che oggi, l’ineffabile D’Alema, intervistato, abbia dato una singolare interpretazione della storia, capovolgendola e affermando che tutta la politica del Pci, addirittura la sua “costituzione materiale”, si sarebbe ispirata al gradualismo di Turati. Un riformismo – testuale – “nascosto dietro un linguaggio che lo rendesse compatibile con un orizzonte rivoluzionario”. Un ossimoro degno erede della doppiezza togliattiana. In realtà la nomenklatura comunista ha sempre avversato Craxi, additandolo non solo come un nemico, ma come un pericolo pubblico per la democrazia, non riconoscendogli mai il merito di aver modernizzato la sinistra. Il Pci è sempre rimasto arroccato nei suoi fortilizi ideologici, e neppure il referendum sulla scala mobile, che fu l’ultima battaglia persa di Berlinguer e la grande vittoria di Craxi, servì a scalfire il falso mito dell’infallibilità e della diversità etica del comunismo italiano, che una sua Bad Godesberg non l’ha mai davvero fatta. All’unità politica con i socialisti preferì l’opzione cattocomunista, ossia l’alleanza con la sinistra dc, un patto di potere culminato nel Pd, un partito senz’anima che sta consegnando la storia della sinistra nelle mani di Conte e di Grillo.