Il paradigma antifascista continua ad essere l’arma principale della sinistra da brandire contro l’avversario elettorale di turno, dal Cavaliere al Capitano fino alla pasionaria Giorgia, tutti bollati come neri epigoni del tempo che fu.
Alla radice di questo perenne controcanto resta l’atavico pregiudizio sull’inaffidabilità del centrodestra a guidare una grande democrazia. In realtà, la seconda Repubblica ha dimostrato che nessuno ha mai brillato per capacità di governo, e comunque gli italiani si sono sempre sostanzialmente fregati degli anatemi ideologici.
Ma questa volta più di sempre conteranno le risposte che partiti e coalizioni sapranno dare alla più grande crisi dal secondo dopoguerra: non siamo infatti né nel 1994 né nel 2001, quando il centrodestra vinse le elezioni prima grazie alla discesa in campo di Berlusconi che lo inventò dal nulla, e poi con la promessa di alzare le pensioni minime a un milione al mese. Nel 2001 si votò quattro mesi prima dell’undici settembre, la data che diede inizio a una catena di crisi globali culminata quest’anno con la guerra in Ucraina. Le urne del 25 settembre si apriranno in mezzo a una potenziale tempesta perfetta, col rischio di un’inflazione a due cifre e di un prezzo dell’energia fuori controllo che porterebbe alla chiusura di una percentuale spaventosa di imprese, con disastrose conseguenze sociali. Per questo servono programmi credibili, perché i margini di finanza pubblica saranno molto limitati e – per la prima volta nella storia della Repubblica – tra elezioni e legge di bilancio passeranno meno di tre mesi, per cui chi eccederà in libri dei sogni sarà costretto a smentirsi a stretto giro di posta. Sarà utile, insomma, avere ben chiaro il quadro delle compatibilità economiche, e assicurare una copertura certa sia all’innalzamento delle pensioni minime a mille euro che a quota 41 con l’abolizione definitiva della legge Fornero, vito che a compensazione non basterebbe nemmeno abolire tout court il reddito di cittadinanza.

C’è un vincolo esterno che, una volta scaduto il tempo dei cordoni larghi concesso per la pandemia, volenti o nolenti tornerà sempre più pressante: il Patto di stabilità per ora è sospeso, ma con l’aria che spira a Bruxelles e il ritorno in campo delle strategie frugali del nord, il 2023 sarà sicuramente l’anno del ritorno. Ma già ora la Bce ci ha posto condizioni stringenti per tenere aperto il paracadute anti-spread, di cui avremo terribilmente bisogno: i requisiti previsti sono la valutazione della sostenibilità del debito, l’assenza di una procedura d’infrazione, l’avvio concreto di un percorso di riduzione di debito e deficit e il rispetto delle riforme del Pnrr. E insieme alla Banca Centrale saranno la Commissione europea, il Fondo Monetario e il Mes (sì, il Mes…) a dare semaforo verde sulla sostenibilità del debito pubblico italiano. Questo è il contesto in cui dovrà muoversi il nuovo governo, un sentiero tutto in salita tra emergenza sociale da arginare e vincoli da rispettare: se qualcuno pensa di andare al muro contro muro come accadde, con esiti disastrosi, ai tempi del governo gialloverde, non farà altro che dar credito alla profezia di chi già ora sostiene che il centrodestra vincerà le elezioni ma non riuscirà a governare per più di sei mesi. Con il Pd già pronto a tornare al governo in qualche modo. Anzi, in qualsiasi modo.