Quando Fini entrò in rotta di collisione con Berlusconi, e arrivò a definire “comiche finali” la fondazione del Pdl sul predellino di piazza San Babila, pronunciò anche una sorta di anatema iettatorio: “Berlusconi si ricordi che se vuole fare il presidente del consiglio deve fare i conti con me, e poi io ho vent’anni di meno… Mica si crede di essere eterno”. Poi il leader della destra cambiò idea, sciolse Alleanza Nazionale e confluì nel Pdl, ma fu un’adesione talmente poco convinta da diventare quasi subito una convivenza impossibile.

Il prologo fu, diciamo così, poco edificante, ma lo spettacolo messo successivamente in scena lo fu ancora di meno, nonostante lo storico successo del centrodestra alle elezioni del 2008 e la responsabilità di governare il Paese in mezzo a una gravissima crisi finanziaria internazionale: l’area finiana si distinse infatti per un correntismo esasperato spacciato per nobile politica d’avanguardia, con la Fondazione Farefuturo nella funzione di bocca di fuoco culturale che aveva un unico, ossessivo e poco originale bersaglio: Silvio Berlusconi. Il primo vero affondo risale a fine aprile 2009, quando comparve un micidiale corsivo contro il cosiddetto velinismo, poi fu la volta dell’attacco al “modello Caligola” che il Cavaliere avrebbe imposto al Pdl, quindi – copiando Repubblica – furono formulate alcune domande – casualmente dieci – alla maggioranza del partito. Tra i quesiti rivolti c’erano: “Tradire significa difendere la dignità di ogni essere umano? Tradire significa difendere la libertà di coscienza? Tradire significa avere a cuore la rispettabilità delle istituzioni? Tradire significa non essere degli yesman?”. Fino all’ultimo affondo: “Tradire è davvero tutto questo? Oppure, forse, tradire è proprio l’esatto contrario?”.

Insomma, una strategia destabilizzante portata avanti col collaudato metodo della minoranza organizzata e che si perfezionò alla vigilia delle Regionali del 2010, quando il Secolo d’Italia, che pure era ancora il quotidiano del Pdl, si avventurò perfino nella similitudine tra Mussolini e Berlusconi, mentre Farefuturo faceva l’apologia dell’astensionismo e Fini si premurava di dichiarare la bruttezza di “questo Pdl”. Abbandonando peraltro al suo destino Renata Polverini, da lui fortemente voluta, con l’alta motivazione che il presidente della Camera non può scendere nell’arena elettorale (ma per la Polverini, portata in braccio da Berlusconi alla conquista del Lazio, fu un autentico colpo di fortuna). Si trattò, dunque, di un sabotaggio politico in piena regola a un partito, a un governo e a una maggioranza, e anche un tradimento del mandato elettorale spacciato per diritto al dissenso. Questo sommario riassunto spiega bene i motivi per cui si arrivò allo show-down tra i due cofondatori del Pdl davanti alla direzione nazionale del partito, con lo smarrimento di tanti berluscones che si videro inopinatamente scavalcati a sinistra dagli ex missini della Giovane Italia folgorati sulla via della sinistra. I quali, da sperimentati guastatori, tentarono di trasformare il Pdl in una sorta di assemblea permanente. Provenivano da An, il partito più presidenzialista d’Italia, che aveva celebrato in quindici anni solo tre congressi – compreso quello di scioglimento – e improvvisamente si scoprirono paladini del collettivismo. Ma, quel che è peggio, lo fecero con un ingiustificato complesso di superiorità – anch’esso mutuato dalla sinistra – e con la presunzione di sentirsi le sole intelligenze vive di un centrodestra popolato di replicanti. E a forza di pensare, spesso sconfinarono nel ridicolo. Come il Secolo d’Italia che, cercando di dipingere Fini come vittima del “centralismo carismatico” del Cavaliere, propose ai suoi lettori un arduo paragone tra Lenin e Berlusconi titolando: “Ma Lenin ammetteva che le minoranze potessero esprimersi” (domandare ai menscevichi come finì…)

La fondazione di Futuro e Libertà fu poi il passaggio decisivo per disgregare la maggioranza, con l’approdo definitivo a posizioni di centrosinistra – a partire dal sì alla cittadinanza agli immigrati – fino al fallimento elettorale del 2013. Da presidente della Camera, Fini svolse un ruolo politico a tutto tondo, accusando il centrodestra di aver disgregato la coesione sociale del Paese e creando una continua fibrillazione che agevolò il disegno di chi voleva cacciare Berlusconi dal governo. Questa è la cronaca di quegli anni, e degli errori che segnarono la fine di un leader a cui resta comunque il merito storico di aver emancipato la destra missina riconoscendo il fascismo come “male assoluto”. Ma, se teniamo a mente l’ultimo tratto di strada politico di Fini, non ci si può sorprendere se oggi va in televisione – su Raitre – a fare il grillo parlante che polemizza solo con la destra. Sarebbe curioso il contrario.