Per chi è suonata la campana del Quirinale nel sermone di fine anno?

L’appello ecumenico alla responsabilità generale e il forte richiamo alla realtà erano in qualche modo passaggi dovuti e attesi, ma a chi era rivolto l’incitamento a evitare ritardi che sarebbero esiziali per il Paese, e a chi dovevano fischiare invece le orecchie ascoltando il sussiegoso riferimento al “tempo dei costruttori? Sono due domande entrambe retoriche, perché nel primo caso era evidente la puntura di spillo nei confronti di Conte, e nel secondo all’inquietissimo Renzi, che rivestendo i panni del rottamatore ha messo in fibrillazione il governo. Impostare il senso di tutto il messaggio presidenziale sulla necessità di un governo di “costruttori”, insomma, ha significato voler mettere fuori gioco i rottamatori. Molti commentatori hanno visto nel discorso di Mattarella un richiamo generale alla responsabilità di tutta la classe dirigente, ma la sensazione è che abbia usato la carota con Conte e il bastone col suo rivale, accusato – anche se essere mai citato esplicitamente – di “inseguire illusori vantaggi di parte”.

Tirando le somme, pur nelle modalità e nelle forme proprie di un Settennato più notarile che interventista, il capo dello Stato ha ancora una volta lanciato una ciambella di salvataggio al premier, anche se appare un esercizio sempre più surreale identificare l’interesse nazionale con la sopravvivenza di un governo che sta collezionando record negativi storici, dal crollo del Pil al numero di morti per abitante fino al disastro annunciato nella distribuzione dei vaccini.
Berlusconi, nove anni fa, fu giustiziato politicamente (e sbrigativamente) per molto meno: era inviso alle Cancellerie europee, certo, ma anche il bisConte dimezzato in questi mesi ha sprecato tutto il bonus di credibilità che l’Unione gli aveva generosamente concesso. Basti pensare che persino Gentiloni ha dovuto fare la voce grossa sul Recovery Fund.

Questa volta non è certo, però, che il paracadute quirinalizio sia sufficiente a salvargli la pelle.
Nel qual caso anche il Colle dovrebbe necessariamente cambiare verso, perché servirebbe una crisi rapida. Se è tempo di costruttori, Mattarella dovrebbe usare fino in fondo le sue prerogative, e se non esiste in Parlamento un’alternativa praticabile, mandare il Paese alle urne, perché quando stabilità politica fa rima con immobilismo, proteggere lo status quo significa remare contro l’interesse nazionale.

Trattandosi a tutti gli effetti di un anno decisivo per rimettere in piedi l’Italia, non possiamo più permetterci il lusso di avere un avvocato del popolo a Palazzo Chigi e un presidente-notaio al Quirinale.