Il Pd era nato come partito della modernità per rinnovare la sinistra, ma dopo essersi adagiato per un intero decennio nelle stanze del governo senza mai aver vinto le elezioni, ora con la Schlein ha ingranato l’indietro tutta, a rimorchio delle piazze arcobaleno sul fronte dei diritti civili e della Cgil sulle questioni sociali: una cinghia di trasmissione alla rovescia, insomma, rispetto ai tempi del Pci. La nuova segretaria è il profilo ideale per una sinistra preoccupata solo di recuperare le vecchie parole d’ordine, con un mix di politiche sociali e valoriali incentrate su salario minimo, patrimoniali, ius soli, diritti senza limiti e cannabis libera. Nel Pd hanno insomma prevalso le spinte melenchoniane e corbyniane, una linea già tracciata – con Letta segretario – da Orlando e Provenzano, contigua alla Cgil e in rotta totale con il jobs-act di Renzi, considerato il lascito deteriore della deriva ordoliberista, e sul Nazareno tornano a sventolare le bandiere ideologiche di Cofferati e Camusso contro ogni tentativo di riforma del lavoro, a partire dal totem dell’articolo 18.
Ma un partito che ha finora preteso di essere l’erede della tradizione riformista non può mai avere come stelle polari la Cgil da una parte e i Cinque Stelle dall’altra, perché così seppellisce definitivamente l’ubi consistam della sua fondazione.
Il quadro emerso dal congresso di Rimini è infatti quello di una competizione per la leadership della sinistra tra il sindacato-partito che non ha mai abbandonato l’ambizione di egemonizzare l’opposizione politica – come fece Cofferati entrando in rotta di collisione con D’Alema – , il nuovo-vecchio Pd e il Movimento di Conte, in una rincorsa a sinistra tutta giocata a base di slogan, demagogia e populismo ben sintetizzati, del resto, dalla proposta di costituire un “Coordinamento anti-Papeete”, formula imbarazzante che è già tutta un programma. Anzi: più che un programma, l’ammissione di un vuoto politico che antepone un suggestivo quanto illusorio divenire all’essere, ossia al “che fare”, ovvero la prima domanda che dovrebbe porsi chiunque aspira a diventare forza di governo.
Un campo largo che nasce su queste basi è destinato a trasformarsi presto in una sterile esibizione di impotenza, tanto che Calenda se ne è tirato subito fuori, ma per l’Italia è un guaio enorme trovarsi un’opposizione così in una fase storica drammatica, in cui sarebbe d’obbligo la massima coesione nazionale.
Invece la sinistra sta ricostruendo ad uno ad uno tutti i vecchi steccati ideologici, come se non fosse passato più di mezzo secolo da quando il Pci – a cui era precluso governare – mobilitava le masse e la sua opposizione trovava linfa nello spazio extraparlamentare della “piazza”: l’unico obiettivo era dare spallate ai governi democratici, che cadevano e risorgevano in altre forme. Questa è la storia politica della Prima Repubblica, ma riproporre oggi lo stesso schema ideologico è un errore inaudito. Nessun partito è più escluso per vincoli internazionali dalle responsabilità di governo, ma la sinistra sconfitta considera ancora le mobilitazioni di piazza come puntello strategico della propria azione, rivendicando un modello di lotta politica fatto di protesta indiscriminata senza proposta. Una tattica di corto respiro che può far salire i consensi nel breve periodo, ma che alla lunga rischia di essere un suicidio politico. C’è da governare una crisi gravissima, e l’opposizione, invece di indicare la strada per risolvere i problemi, ogni sabato scende in piazza, strumentalizza le tragedie dei migranti e vagheggia una nuova ammucchiata nel segno del più sfrenato massimalismo. Era il motto dei sessantottini: prima scendiamo in piazza, poi vediamo cosa fare. Tanto peggio, tanto meglio.