Il governatore ligure Toti, ancora turbato dal paragone fatto da Zelenzky tra la città martire di Mariupol e Genova – ieri si è lanciato in un sillogismo politicamente scorretto: “Chi critica la fornitura di armi ai combattenti ucraini che difendono il loro Paese, chi critica l’aumento delle spese militari per difendere le nostre democrazie, allora non festeggi il 25 aprile”.

Ai vertici dell’Anpi, reduci dalle polemiche del XVII congresso nazionale, sono fischiate le orecchie, e la contraerea si è messa subito in azione: l’intervista di Toti è stata bollata come un’autentica provocazione, con una replica tanto indignata quanto sprezzante (“Per noi è 25 Aprile tutto l’anno, Toti si rilegga la storia, allora eravamo cobelligeranti”) a cui è seguita la consueta batteria di dichiarazioni politiche a partire da Boldrini (“Basta strumentalizzare l’Anpi”), Fassina (“Attacchi indecenti”), e Fratoianni (“Insulsaggini propagandistiche”) secondo il collaudato copione per cui il centrodestra non ha mai diritto di intervenire sui valori della Resistenza.

Eppure la sortita di Toti non è stata né peregrina né illogica, se non per chi continua a leggere la storia con gli occhiali distorti dell’ideologia, perché per chi crede nella democrazia c’è un denominatore etico che unisce le lotte di liberazione dai tiranni, che dovrebbero quindi avere tutte uguale legittimità e identico sostegno. Non a caso, si sono inserite in questo solco di difesa della libertà altri e più autorevoli personaggi come Liliana Segre secondo cui non può esistere equidistanza tra le due parti in conflitto, ed è doverosa la vicinanza verso il popolo ucraino.

O come il presidente onorario dell’Anpi Smuraglia, che alla Resistenza partecipò in prima persona, e non ha esitato a dissociarsi dalla posizione ufficiale dell’Associazione: “Un popolo che resiste contro l’invasore va aiutato, anche con le armi”. E “che sinistra è una sinistra che non cerca di aiutare in tutti i modi un popolo aggredito?” ha chiesto polemicamente Cofferati, ex segretario della Cgil, facendo probabilmente fischiare le orecchie a Landini?

Prese di posizione limpide quanto scomode, che hanno messo a nudo le ambiguità dell’Anpi, schierata sul crinale scivoloso e ipocrita dell’ambiguità. La condanna formale dell’invasione russa, infatti, fu subito accompagnata da una selva di distinguo e dal perentorio rifiuto dell’invio di aiuti militari all’Ucraina “perché “le armi parlano solo il linguaggio della guerra”.

Un no preceduto, quando Mosca riconobbe le Repubbliche separatiste del Donbass, da un comunicato che non condannava Putin ma gli Usa e la Nato, intimando a Biden di “cessare immediatamente le clamorose ingerenze nella vita interna dell’Ucraina e le ininterrotte minacce nei confronti della Russia”. Sembrava quasi un dispaccio della Pravda, a conferma della lunga tradizione antiamericana di un’Associazione ancora pervasa dal richiamo della foresta comunista.

Basti ricordare quanto l’Anpi scrisse in occasione dello storico voto del Parlamento Europeo che equiparò nazifascismo e comunismo, unendo così nella condanna i totalitarismi del Novecento. “È inaccettabile – fu la furibonda reazione – accomunare in un’unica riprovazione oppressi ed oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori”. Come se il comunismo non fosse da annoverare tra i mali ideologici che hanno avvelenato il secolo breve.

Un riflesso pavloviano che incide oggi sulle titubanze nel condannare Putin, l’epigono dei bei tempi andati che l’Impero sovietico lo vorrebbe restaurare.