Un senso di eccitazione ha attraversato l’Italia, all’annuncio che dall’Europa sarebbero arrivati più di 170 miliardi, come sostegno alla crisi post-COVID. Per tanti è stato come un jackpot vinto. La questione è così sparita dal dibattito pubblico, come se attendessimo solo l’accredito. Non è così. La narrazione eurolirica non ha aiutato: la voglia di rivalsa sugli euroscettici, ha fatto sì che i media si siano dimenticati di esporre il piano nei dovuti modi. Solo negli ultimi due giorni, la verità ha iniziato a venire a galla. E non è confortante. Anzitutto, i 500 miliardi (dei 750 complessivi) che verranno distribuiti a fondo perduto, la Commissione Europea li prenderà a prestito dal mercato. La restituzione sarà a carico degli Stati membri, attraverso un aumento dei contributi che versano ogni anno per il bilancio UE, oppure prevedendo nuove tasse europee. Il Piano attualmente prevede che l’Italia possa ricevere fino a 82 miliardi a fondo perduto. La contribuzione per la restituzione sarà di 65. Il saldo vero sarà quindi di +17 miliardi. Ma non è finita qui. Perché sulle prime, l’Italia dovrà arrangiarsi: il Piano prevede infatti che solo nel biennio 2023/2024, i sussidi diventino sostanziosi. E la ragione è semplice: l’Europa “concede i fondi solo dopo che verranno presentati piani dettagliati su come investirli e prese misure per spenderli con efficacia”. In sostanza, Bruxelles prende tempo per capire dove e come li spenderemo. Il nostro paese infatti, è ormai tristemente noto per la pessima abitudine di distribuire (spesso a pioggia) le proprie risorse, anziché investirle per creare ricchezza. L’Europa fa quindi valere il vecchio principio: pagare moneta, vedere cammello. Diteci cosa intendete fare (progetti) e come intendete farlo (semplificazione, sburocratizzazione) e noi vi aiuteremo. Che è un po’ come dettare le condizioni con limitazione di sovranità; in sostanza, è come se ci dicessero “fate da soli”: ritenere infatti che l’Italia possa fare in un biennio, ciò che non è riuscita a fare negli ultimi 20 anni, è da folli. O da furbi. Si ripropone allora il solito mantra: da soli ce la possiamo fare? Di sicuro, non potremo continuare ad indebitarci nei confronti dei mercati: già prima della crisi, i nostri BTP erano ad un passo dalla valutazione “junk bond”. Oggi, con 75 miliardi di ulteriore deficit autorizzati dal Parlamento (ed altri 30 in arrivo) in combinato con la pesante contrazione del PIL, l’Italia sarebbe in una situazione analoga a quella del 2012: sottoposti alla speculazione sul presupposto dell’insostenibilità del debito e quindi a rischio default. Solo il cappello della BCE, che sta acquistando i nostri titoli in modo illimitato, ci ha salvato. Ma non potrà durare per sempre. Una soluzione l’ha suggerita sul nostro sito Maurizio Bianconi: impegnare i risparmiatori italiani ad acquistare i titoli del debito (in modo strutturato però, non estemporaneo come ha fatto il Governo il mese scorso), così da impiegare una parte dei 3.400 miliardi, porzione immediatamente utilizzabile, dei 10.500 miliardi che costituiscono la nostra ricchezza privata (la più alta al mondo) per provare a ripartire. In entrambi i casi però, rimane sempre un nodo: la politica non potrà più continuare a dar calci alla lattina e dovrà dimostrarsi all’altezza del ruolo ricoperto e del compito affidatogli e metter mano a riforme finora rimandate perché strategiche ma soprattutto impopolari. I soldi, da soli, non bastano più. Ci vorrà una rivoluzione e una classe dirigente adeguata . E qui casca l’asino.