Per fingere di rispettare il sabato del silenzio elettorale, sabato sul palco di piazza San Giovanni sono saliti solo i sindacalisti, come se Landini non facesse politica tutti i giorni. È stata a tutti gli effetti, insomma, una forzatura per il luogo scelto (Roma), per il giorno (la vigilia del ballottaggio) ma anche per il titolo (“Mai più fascismi. Per il lavoro, la partecipazione, la democrazia”), perché se la sinistra avesse davvero voluto una risposta unitaria all’assalto contro la Cgil avrebbe aspettato qualche giorno aderendo alla proposta di una manifestazione contro i totalitarismi di ogni colore. Ma questo è ancora un Paese in cui si chiede a Giorgia Meloni l’analisi politica del sangue, e si continua invece a non considerare i troppi conti con gli scheletri ideologici del Novecento che la sinistra non ha mai fatto, per la semplice ragione che le casematte della cultura, che danno le carte della legittimazione democratica, sono ancora tutte in mano sua.
Del resto, come si è letto sui social, “in Italia la dittatura comunista non è mai esistita, quella fascista sì. Questa è la nostra storia”. Una semplificazione che oscura la memoria sui rischi che corse la nostra democrazia nell’immediato dopoguerra, scongiurati dalla vittoria della Dc il 18 aprile 1948, sul sangue dei vinti nel triangolo rosso, sui decenni di guerra fredda che divisero verticalmente l’Italia per la presenza del più grande partito comunista d’Occidente. Ma soprattutto sui crimini del comunismo e sulle uccisioni di massa ordinate da Stalin e dal Comintern – con la complicità ideologica del Pci – anche nei confronti degli stessi comunisti europei, riparati in Unione Sovietica per scampare alle galere del fascismo, e ai lager e ai plotoni di esecuzione del nazismo. Storie agghiaccianti, confermate nella loro interezza dall’apertura, prima con Gorbaciov e poi con Eltsin, degli archivi di Stato di Mosca. Il centenario della scissione di Livorno avrebbe potuto costituire l’occasione per una riflessione storica sul drammatico e colpevole ritardo con cui il Pci prese le distanze dal socialismo reale, fondato sul sistema del partito-Stato che ha dentro di sé gli elementi dell’oppressione. Invece Togliatti nel ‘56, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, sferrò un violento attacco contro il revisionismo di Nenni e di Giolitti, un’ortodossia durata, con il corollario degli ingenti finanziamenti sovietici, fino a Berlinguer. La storia del comunismo ha dunque influenzato pesantemente le dinamiche della democrazia italiana.

Ma alla vigilia di ogni elezione, nella sinistra scatta sempre il riflesso pavloviano del pericolo fascista alle porte. Basti ricordare il 25 aprile del ’94, quando la gioiosa macchina da guerra di Occhetto era stata appena sconfitta democraticamente nelle urne da Berlusconi, e il Pds scese in piazza non tanto per celebrare il giorno della Liberazione dal nazifascismo, ma soprattutto per sancire la necessità di una nuova Resistenza contro il rinascente fascismo capeggiato dal Cavaliere nero. Ecco: se il centrodestra avesse deciso di partecipare alla manifestazione “unitaria”, il copione sarebbe stato lo stesso di tutti i cortei del 25 Aprile, ritenuto patrimonio esclusivo della sinistra per impartire scomuniche. Sabato in piazza c’era anche la bandiera dell’Unione Sovietica, tanto per dire.