I primi sondaggi dopo il terremoto del Quirinale hanno confermato un trend consolidato ormai da anni, ossia che i tre partiti di centrodestra, anche senza cespugli, mantengono un ampio vantaggio sul fronte rossogiallo. Dunque, le convulsioni quirinalizie non hanno intaccato il vantaggio competitivo di un’alleanza politica che resta salda nella base elettorale ma drammaticamente in bilico ai vertici, dove regnano confusione e risse. Per rimettere insieme i cocci servirebbe un esame di coscienza collettivo, che non è però alle viste, perché anzi ogni giorno che passa le faglie politiche si allargano e i ponti levatoi si alzano.
Berlusconi, almeno, non si stanca di ribadire il suo disinteresse rispetto ad operazioni di stampo terzopolista, e che il rafforzamento del centro a cui sta lavorando si svolge rigorosamente dentro il perimetro della coalizione. Ma al momento prevalgono ovunque veleni, sospetti e distinguo: Brunetta, ad esempio, ha liquidato il centrodestra come un relitto del “bipolarismo bastardo”, prefigurando per il 2023 un cartello unitario dei riformisti-europeisti. Il ministro è da tempo un battitore libero, ma la sua non è una posizione totalmente isolata nell’ala forzista che ha sempre subito come una camicia di forza l’alleanza strategica con i sovranisti, anche se la linea di Berlusconi – che è quella che conta – va (per ora) nella direzione opposta.
Il problema più vistoso, dunque, riguarda i rapporti tra i due partiti maggiori, i cui leader dopo una lunga guerra di posizione per contendersi lo scettro futuro, sembrano arrivati alla resa dei conti finale. Salvini, dopo l’autodafè da kingmaker, naviga nella nebbia senza una rotta precisa, e come l’asino di Buridano ondeggia tra la fedeltà al governo e la rincorsa alla Meloni, tra l’avvicinamento al Ppe e i contentini ai no vax. La stessa proposta di ristrutturare il centrodestra sul modello repubblicano Usa è apparsa come un miscuglio di laboratorio tra la federazione con Forza Italia e il progetto di partito unico lanciato tempo fa da Berlusconi ma opportunamente riposto nel cassetto. Esercitarsi in improbabili strategie politiche in questo caos somiglia in effetti al tentativo di gettare la palla in tribuna per esorcizzare i fatti, che hanno la testa dura. Fatti che ora danno ragione a Giorgia Meloni, premiata per la sua granitica coerenza, ma anche lei dovrà porsi – più prima che poi – il dilemma di Lenin: che fare? La corsa solitaria alle amministrative di primavera è una tentazione ma anche un azzardo: premierebbe il patriottismo di partito, incoronandolo per la prima volta come il primo d’Italia, ma lascerebbe però per strada una strage di sindaci non rieletti. Più che una vittoria di Pirro, insomma, un autogol che regalerebbe al Pd un’altra insperata vittoria.
Uno scenario, insomma, che lascia sgomenti: di questo passo, il centrodestra finirà per apparire agli occhi dei suoi stessi elettori come una squadra di utili idioti, quelle figure grottesche che favorivano i comunisti contro i propri interessi. Sarebbe l’epilogo più triste per la coalizione che Berlusconi fondò per impedire agli eredi del Pci di prendere il potere nel ’94.