Sono passati ventotto anni dalle monetine davanti al Raphael contro Bettino Craxi, l’evento simbolo della rivolta popolare contro i ladroni di Stato. In realtà fu una gazzarra di “tiratori di rubli”, come li definì sarcasticamente il leader del PSI.

Già, perché dietro quell’orrendo tumulto ci fu anche, ma non solo, la regia dietro le quinte del Pds, che aveva fretta di sbarazzarsi dello scomodo Cinghialone braccato dalle procure.

Filippo Facci nel suo bel saggio appena uscito individua a ragione quei giorni oscuri come l’inizio della fine della politica. Era scoppiata Tangentopoli, l’Italia era percorsa tutta dal fremito giustizialista che si attagliava perfettamente a un Paese di moralisti senza morale, infoiato fino al parossismo dalla caduta fragorosa degli dei della politica. Craxi pagò per tutti, mentre i comunisti scamparono alla tempesta grazie ai magistrati di sinistra e a quel bizzarro popolano in toga che rispondeva al nome di Antonio Di Pietro.

Un personaggio grezzo, arcinemico della lingua italiana ma che in pochi mesi divenne l’eroe assoluto dell’italiano medio e della sua voglia di forca. Mani pulite fu in realtà un falso lavacro morale guidato da una Procura intenta a trasformare un ordine giudiziario in un potere onnipotente, in grado di dettare le leggi, disfare i governi e imporsi come supplente della politica con la complicità di Scalfaro, il vecchio democristiano di destra, discepolo di Scelba, che era salito al Colle grazie a Pannella e, ironia della storia, col beneplacito proprio di Craxi.

Scalfaro sciolse senza batter ciglio il Parlamento degli inquisiti (i quali poi vennero quasi tutti assolti, a carriera distrutta) salvo alzare la voce quando quel vento giacobino cominciò a bussare al portone del Quirinale per la faccenda dei fondi occulti dei servizi segreti. Solo allora Scalfaro, a reti unificate, urlò il suo “non ci sto”. Ma aveva subdolamente taciuto, lui come l’allora presidente della Camera Napolitano e come tutti gli altri, quanto Craxi, il 3 luglio del 1992, pronunciando la sua autodifesa, aveva messo in guardia dal rischio mortale che stava correndo la Repubblica: “Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico – aveva scandito nell’aula imbarazzata e glaciale di Montecitorio – per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura”.

E così, purtroppo, è avvenuto, sull’onda di un’ubriacatura giustizialista di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze. Quel discorso segnò di fatto la fine della prima Repubblica, ma finì nel vuoto della falsità e dell’ipocrisia di chi aveva già pianificato tutto: la fine dei partiti democratici e la presa del potere per via giudiziaria. “La storia si incaricherà di dichiararli spergiuri” – avvertì Craxi, ma la nemesi per i comunisti epigoni di sé stessi non è ancora arrivata, e nemmeno il pentimento per l’agguato del Raphael.

Di cui a Bettino, in fondo, poco importerebbe: “Tutto vorrei – disse infatti – meno che essere riabilitato da coloro che mi hanno ucciso”.