Ogni volta che il mondo politico va in fibrillazione – e succede sempre più spesso – torna sempre in ballo il fantasma del cosiddetto “grande centro” che dovrebbe fiorire dalle fragili radici di qualche “centrino” allargato a supporti provenienti sia dal centrosinistra che dal centrodestra, con la benedizione di qualche figura di prestigio esterna alla politica. Accadde col trio Casini-Fini-Rutelli, esperimento naufragato addirittura in provetta, ed è poi successo col professor Monti, la cui Scelta civica si dissolse in Parlamento dopo una non brillante prova elettorale. Ora qualcuno ci riprova, nonostante i pregressi fallimenti, ipotizzando di dare forma al cosiddetto “partito di Draghi” senza il coinvolgimento diretto del premier. Lo scopo è evidente: lucrare sui suoi attuali consensi per presentare un’offerta politica in grado di scompaginare gli attuali schieramenti, considerati incapaci di governare in quanto entrambi condizionati uno dai sovranismi di destra e l’altro dal populismo grillino. “In medio stat virtus”, insomma, anche se il voto del 2018 ha dimostrato che non sempre, e non più, le elezioni si vincono al centro. Chi dunque vagheggia la ricostituzione di una forza centrista nella convinzione che il bipolarismo è diventato una camicia troppo stretta per il sistema politico italiano fa un calcolo probabilmente errato.
Lo schema è sempre lo stesso: un centro in grado di condizionare in prospettiva, di condizionare qualsiasi futura combinazione parlamentare, e il presupposto di questa operazione passa ovviamente da un ritorno al sistema proporzionale.
Nella seconda Repubblica, con una sinistra intrisa di massimalismo e di giustizialismo, le posizioni “di centro” siano state occupate soprattutto da Forza Italia, mentre il Pd le ha fatto da contraltare solo nella breve stagione di Renzi – con lo sfondamento al centro certificato dal 40 per cento alle europee del 2014 – ma prima e dopo si è identificato solo e soltanto come un partito teso a occupare il potere e per questo pronto anche alle alleanze più spregiudicate, come quella con Grillo.
Finora, la ricerca affannosa del “centro” si è dunque rivelata solo un’esercitazione scolastica senza alcun appiglio con la realtà. Il bipolarismo, più o meno funzionante, è stato infatti messo in crisi da un movimento populista di massa come i Cinque Stelle, che non aveva nulla a che vedere con il centrismo. Gli elettori stanchi e delusi dal bipolarismo hanno scelto o il voto di protesta o l’astensionismo, e l’opzione centrista ha prodotto solo fantasmi politici come Monti.
Nonostante questo, è di nuovo in atto una disperata corsa al centro da parte di innumerevoli personaggi in cerca d’autore contano di essere determinanti per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Dovrebbe essere quella la prova generale per la nascita di una nuova aggregazione politica, moderata e lib-lab, pronta a competere alle prossime elezioni. Il numero degli aspiranti è però inversamente proporzionale ai consensi potenziali.