Per comprendere quanto sia cruciale per il centrodestra la partita del Quirinale, basta pensare a come sarebbe cambiata la storia d’Italia se negli ultimi trent’anni sul Colle ci fosse stato un presidente di centrodestra. Nel 1994, dopo la disfatta della sinistra, ci fu subito quello che Berlusconi definì eufemisticamente “un imbroglio”, con Scalfaro che convinse Bossi a sostenere il governo Dini. La rivoluzione liberale votata plebiscitariamente dagli italiani fu quindi uccisa in culla dal combinato disposto di volontà quirinalizia e supplenza giudiziaria, una costante di tutta la seconda Repubblica.
Se Scalfaro apparve subito come il nemico dichiarato di Berlusconi, un corpo estraneo alla politica e per questo da rimuovere, Ciampi fu invece un avversario più felpato, ma ugualmente implacabile nei confronti dei governi di centrodestra dal 2001 al 2006. Non esitò a bloccare, ad esempio (era l’aprile del 2003), la legge Gasparri sul riassetto del sistema radiotelevisivo è l’anno successivo non controfirmò, rinviandola alle Camere, la riforma dell’ordinamento giudiziario. E nel 2006 stessa sorte toccò alla legge Pecorella sulla inappellabilità delle assoluzioni di primo grado. Ma il capolavoro Ciampi lo avrebbe poi fatto sulla nuova legge elettorale, imponendo premi di maggioranza regionali per il Senato che determinarono una forte instabilità politica per la diversa consistenza delle maggioranze nei due rami del Parlamento.
Napolitano non è stato da meno. Anzi. Il 6 febbraio del 2009 si rifiutò di firmare il decreto Eluana, varato dal governo per bloccare la sentenza che dava la possibilità a Beppino Englaro di lasciar morire sua figlia togliendole l’alimentazione artificiale. Ma non fu l’unica fibrillazione istituzionale: il 7 ottobre il centrodestra protestò infatti dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta, divenuta sempre più – rischio paventato da Calamandrei durante i lavori dell”Assemblea costituente – un organo “politico”.
Ma fu nell’autunno del 2011, la stagione dei picchi di spread, dell’Italia sull’orlo del precipizio greco, che il Presidente gettò la maschera. Berlusconi governava da tre anni, dopo aver stravinto le elezioni del 2008. Fu il Quirinale a farlo cadere e a dare vita al progetto di Monti.
Scalfaro, Ciampi, Napolitano: tre presidenti, con toni e modalità diverse, espressione degli interessi della sinistra. Ci sono molte similitudini tra i motivi che spinsero Scalfaro a ispirare il ribaltone del ’94 e quelli che indussero Napolitano al cambio di governo del novembre 2011. Scalfaro detestava Berlusconi, Napolitano probabilmente no, ma entrambi agirono in controtendenza con la volontà degli elettori. E’ un fatto che l’Italia nel 2011 fu consegnata alla grande speculazione finanziaria internazionale, che fece salire alle stelle lo spread per cacciare da Palazzo Chigi il premier espressione della volontà popolare. Tutti concordano nel definire determinante il ruolo del capo dello Stato, che con una forzatura trasformò di fatto la Repubblica da parlamentare a presidenziale.
La mancata alternanza al Quirinale ha spostato anche gli equilibri della Corte costituzionale, massimo organo di garanzia della Repubblica, da quasi trent’anni composta da una maggioranza di esponenti vicini alla sinistra. Fra le decisioni più “politiche” spicca quella sul lodo Alfano, che pure era stato scritto seguendo riga per riga le indicazioni date proprio dai giudici costituzionali quando avevano respinto il lodo Schifani. E non è certo un caso se, dei componenti della Corte considerati vicini al centrodestra, nessuno è mai stato di nomina presidenziale.
Questo rapido excursus dovrebbe essere da monito per le anime sparse del centrodestra tentate di fare da sponda alle mire del Pd, che senza mai aver vinto le elezioni, è quasi ininterrottamente al governo da dieci anni e ora pretenderebbe, col 12 per cento dei parlamentari, di mettere di nuovo a segno l’accoppiata Palazzo Chigi-Quirinale. Un’aspirazione che dopo il naufragio lettiano sulla legge Zan diventa tutta in salita. Per la prima volta il centrodestra controlla il 46 per cento dei grandi elettori e ha (avrebbe) il dovere di provarci, soprattutto se Draghi – come pare -alla fine resterà dov’è.