Durante la visita dell’aprile scorso a Cracovia, il presidente Mattarella disse che sarebbe servita una nuova politica di asilo nell’Unione europea “superando le vecchie regole che sono ormai della preistoria”, monito caduto puntualmente nel vuoto dalle parti di Bruxelles. Forse anche per questo, ma soprattutto per l’aggravarsi della crisi migratoria in Italia, il capo dello Stato dalla Sicilia ha ribadito il concetto, paragonando di nuovo la Convenzione di Dublino alla preistoria, “perché quando fu approvata era un altro mondo, e basarsi ancora su quelle regole sarebbe come fare un salto nel Pleistocene”. Che per la cronaca fu il primo dei due periodi geologici dell’era neozoica, caratterizzato dalla comparsa dell’uomo sulla Terra e da una serie continua di glaciazioni. Non sappiamo se questo salto di qualità dalla preistoria al Pleistocene volesse riferirsi anche al gelo che attualmente intercorre tra l’Italia e i Paesi che ci stanno chiudendo le frontiere in faccia, ma la realtà è comunque quella perfettamente descritta da Mattarella: occorre uno sforzo europeo comune e immediato prima che diventi impossibile governare il fenomeno migratorio.
È il Regolamento di Dublino la palla al piede che il nostro Paese si trascina dietro da più di trent’anni, da quando cioè nel 1990 fu approvata la Convenzione che disciplina l’assegnazione dei richiedenti asilo ai Paesi membri. In realtà nel tempo sono state apportate due modifiche – chiamate Dublino II e Dublino III – che hanno però mantenuto di fatto invariata la gerarchia dei criteri originari, fissati quando l’emergenza migratoria si concentrava – dopo la caduta del Muro di Berlino – quasi esclusivamente sul fronte est dell’Unione. Neanche la terza versione, che entrò in vigore il primo gennaio del 2014, riuscì a sanare il vizio di origine, ossia l’attribuzione di tutti gli oneri di accoglienza ai Paesi di primo ingresso, i soli a dover esaminare le domande di protezione internazionale. Un’imposizione, peraltro, che scontenta anche la maggior parte dei migranti, per i quali Italia e Grecia dovrebbero essere solo un approdo temporaneo, perché spesso la loro meta finale è la Francia, oppure la Germania o uno dei Paesi del nord in cui spesso si trovano i loro familiari.

L’evidente fallimento del “sistema Dublino”, dunque, non ha mai portato consiglio: il sistema correttivo adottato per un’equa ripartizione delle responsabilità tra i Paesi membri, infatti, ha sempre riprodotto gli elementi problematici dei meccanismi temporanei di ricollocamento già in atto. La proposta presentata nel 2016 dalla Commissione Juncker, presentata come la “Riforma del Regolamento di Dublino” in realtà non lo era affatto: salvo qualche modifica migliorativa dei termini procedurali, infatti, la gestione dei richiedenti asilo veniva appesantita dall’introduzione di ulteriori passaggi intermedi, e fatta eccezione per la definizione allargata di “familiare”, nessuno dei criteri per la determinazione dello Stato membro competente era infatti toccato.

Ormai è passata un’altra legislatura europea, ma nessuna riforma del Regolamento di Dublino è apparsa idonea a garantire l’accesso rapido dei migranti alla procedura di asilo e una ripartizione più equa delle responsabilità tra Stati membri, unico vero modo anche per scongiurare i cosiddetti movimenti secondari. L’unica vera (ma illusoria) svolta ci fu nel del 2017, quando la riforma approvata dall’Europarlamento eliminava il criterio del “primo ingresso” sostituendolo con un meccanismo obbligatorio di ripartizione dei richiedenti asilo fra gli Stati dell’Unione: il numero massimo di richiedenti asilo da ospitare sarebbe stato stabilito da una quota prefissata, diversa per ogni Paese, in base al pil e alla popolazione. Ma poi in sede di Consiglio europeo non si è mai trovato un accordo, nonostante i ripetuti tentativi della Commissione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non esiste ancora un vero modello di accoglienza europeo dei richiedenti asilo, né sono stati adottati meccanismi in grado di imporre misure coattive in caso di inadempienza dei Paesi membri sui ricollocamenti, che restano del tutto facoltativi. Dublino dunque resta come una spada di Damocle sull’Italia, e nessuno dei nostri partner ha intenzione di toglierla. Anzi: ci chiudono i confini in faccia.