La Cgil è sempre stata l’avamposto sindacale della sinistra, non solo nella Prima Repubblica – resta emblematica la capitolazione di Lama a Berlinguer sul taglio della scala mobile – ma ancora di più negli anni del bipolarismo, quando ha puntualmente agito da sindacato responsabile se governava il centrosinistra (Cofferati aveva addirittura dimenticato la parola sciopero) e comportandosi invece da braccio politico dell’opposizione se a Palazzo Chigi c’era Berlusconi. E’ successo anche, per la verità, che l’estremismo sindacale a volte abbia finito per creare qualche imbarazzo al Pd: nel 2008, ad esempio, la svolta riformista del Lingotto fu messa in grande difficoltà dalla rottura dell’unità sindacale al tavolo del pubblico impiego, perché nel partito esisteva un’ala apertamente filo-Cisl, capeggiata da Marini e da Letta, mentre per gli ex diessini era praticamente impossibile rompere con la Cgil, e l’allora segretario Veltroni fu costretto a salire sul palco sindacale dando l’avallo alla linea del no a tutto. Di lì a poco, poi, era in programma uno sciopero generale della Fiom, che aveva una valenza molto più politica che sindacale, come sostennero Cisl e Uil, classico esempio di opposizione sociale al governo sul modello Cofferati.
La storia dello sciopero generale indetto oggi, tredici anni dopo, da Cgil e Uil è sicuramente più complessa, perché il Pd fa parte di un governo di unità nazionale, esprimendo peraltro il ministro del Lavoro, e ha siglato l’accordo di maggioranza sulla riforma fiscale – oltre che sulla legge di bilancio – frutto di un compromesso obbligato ma non certo punitivo per i lavoratori, perché siamo di fronte a una manovra espansiva che ha ampliato alcune tutele per le fasce meno abbienti, stanziato risorse per le bollette, varato l’assegno unico per i figli, stanziato otto miliardi di tagli delle tasse e altri quattro sulla sanità. Sia il decreto fiscale che la manovra economica sono certo perfettibili, ma rispondere con la tempesta perfetta di uno sciopero generale mentre il Covid sta rialzando la testa e la politica è alla vigilia della cruciale elezione del Capo dello Stato, pare un fallo di reazione sproporzionato. Un’impuntatura ideologica, insomma, per ribadire – nel segno della concertazione obbligata – il potere di veto delle corporazioni come valore quasi costituzionale e quindi irrinunciabile, per cui se la politica, ancorché commissariata, si assume le proprie responsabilità, scatta la rappresaglia di chi non ha potuto piantare la sua bandierina. E’ innegabile dunque l’imbarazzo di Letta, che si ritrova a mediare tra governo e sindacato per scongiurare il peggio, ma non può sorprendere neppure la mossa di Landini, che in questa pandemia non ne ha azzeccata mezza: prima si è scagliato contro lo sblocco dei licenziamenti, prefigurando una catastrofe sociale smentita fortunatamente dai fatti; poi, invece di stare dalla parte dei lavoratori vaccinati, si è schierato contro il green pass obbligatorio nei luoghi di lavoro contestandone la logica “sanzionatoria e punitiva” e pretendendo tamponi gratuiti per i no vax. Evidentemente rinfrancato da questi fragorosi insuccessi, ora ha rilanciato la posta per dimostrare di esistere. Sciopero ergo sum.